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Wasp Network, l’altra faccia dello spionaggio nel film di Assayas: la recensione da Venezia 76

Pubblicato il 02 settembre 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Ci voleva l’occhio attento e cosmopolita di Olivier Assayas per scovare una delle storie meno conosciute dello spionaggio internazionale, vero e proprio ribaltamento di posizioni rispetto a ciò che il cinema racconta di solito. Wasp Network è basato su Os últimos soldados da Guerra Fría di Fernando Morais, e ci porta nella Cuba dei primi anni Novanta, quando il pilota René González (Édgar Ramírez) ruba un aereo e diserta negli Stati Uniti, ricostruendosi una vita a Miami. Sua moglie (Penélope Cruz) e sua figlia restano a La Havana, mentre altri membri dell’esercito compiono la stessa scelta, e vengono accolti in Florida da una rete di profughi cubani. Creduti traditori, sono impegnati in una missione segreta: devono infiltrarsi nei gruppi anti-castristi per prevenirne gli attentati terroristici.

L’arguta costruzione narrativa trae in inganno fin dalla didascalia iniziale, e spiazza chiunque conosca la fede politica di Assayas: le reali intenzioni dei “disertori” vengono infatti rivelate soltanto in seguito, rovesciando completamente la prospettiva sulla storia e l’andamento stesso del film. Siamo più dalle parti di Carlos che da quelle di Sils Maria o Non-Fiction, ma il regista francese conferma anche qui la sua meticolosità nell’articolare i rapporti fra i personaggi (soprattutto le coppie), impostando uno schema speculare che non manca di ironia. Tra matrimoni che si ricompongono e altri che saltano da una frontiera all’altra, Wasp Network mette in scena un punto di vista alternativo a quello dominante, ma senza dimenticare le implicazioni morali di entrambi i fronti.

Fautore di un cinema intimo e sfuggente, la cui poetica si rinnova con l’eterogeneità dei suoi film, Assayas dimostra ancora una volta di saper ampliare i propri orizzonti sulla Storia mondiale, unendo le esigenze dell’individuale a quelle dell’universale. I personaggi restano imbrigliati in una narrazione non lineare che compie scarti improvvisi, frammentandosi in diversi racconti paralleli che s’intrecciano saltuariamente tra loro, dando luogo a un quadro generale più ampio. La cronaca politica, intanto, si agita sullo sfondo: Cuba soffre per gli embarghi imposti dagli USA, che ovviamente non sopportano di avere un regime comunista a poche miglia dalla propria costa. Tale contesto permette al cineasta di gettare uno sguardo su una porzione di Storia recente e spesso ignorata, una via di mezzo tra la Guerra Fredda e la contemporaneità, quando la caduta dell’Unione Sovietica aveva disorientato sia gli alleati sia i nemici della superpotenza russa.

Ciò che ne deriva è un raffinato film di spionaggio che approccia il genere in modo molto personale, imprimendo al racconto una vera e propria forza centripeta: ci assorbe progressivamente nella trama, riannodandone i fili in un epilogo sempre più incalzante. Il caso dei Miami Five (questo il soprannome degli agenti infiltrati) diventa così la testimonianza di un’epoca lontana, non tanto nel tempo quanto nella memoria dell’opinione pubblica, abituata a ben altri scenari geopolitici. Assayas, però, assolve a uno dei principali doveri del cinema: farsi memoria collettiva, traccia indelebile di un passato da ricordare e rielaborare.