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The Painted Bird, il ciclo infinito dell’orrore: la recensione da Venezia 76

Pubblicato il 03 settembre 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Ritenuto a lungo un libro autobiografico, L’uccello dipinto di Jerzy Kosiński è in realtà un romanzo di finzione, eppure la credibilità dei suoi orrori non ne risulta affatto compromessa: la “banalità del male” – per citare la definizione di Hannah Arendt – si è coagulata nei volti comuni dei gerarchi nazisti, ma non ha risparmiato nemmeno gli strati più umili della popolazione, infarciti di superstizioni e pregiudizi. The Painted Bird, l’adattamento firmato da Václav Marhoul, non si tira indietro di fronte a un testo così brutale, e punta sull’accumulo di violenze scioccanti che non si lasciano smorzare dall’eleganza della messa in scena.

Il protagonista è un bambino (Petr Kotlár) che vaga per l’Europa dell’est durante la Seconda Guerra Mondiale, e ogni suo incontro dà luogo a un capitolo pressoché autonomo. Il film è effettivamente scandito dalle relazioni (dis)umane che il ragazzino intrattiene con varie persone lungo la strada: alcune gli offrono rifugio, ma gran parte di esse lo sottopongono a trattamenti spaventosi, o comunque subiscono le conseguenze di un clima sociale tesissimo. Ammutolito dalle atrocità cui assiste, il bambino continua a vagare in uno scenario desolante, sopravvivendo alle più turpi manifestazioni dell’odio e della devianza sessuale, mentre impara sempre nuovi modi per sopravvivere.

The Painted Bird si avvale della splendida fotografia di Vladimír Smutný, un raffinatissimo bianco e nero che non maschera le crudeltà della guerra, ma anzi ne accentua il senso di oppressione. Il bambino è costretto ad affrontare un mondo ormai deflagrato, in cui gli “ultimi” si rifugiano nel folclore per dare un significato alle proprie sventure, ma finiscono solo per infliggere le stesse brutalità che punteggiano il conflitto bellico. Attraverso la successione dei capitoli (ognuno dei quali è contrassegnato dal nome di vari personaggi, a seconda di chi ospiterà il bambino), Václav Marhoul ritrae il ciclo inarrestabile dell’orrore: non c’è nemmeno il tempo di assorbire l’ultima efferatezza, che subito ne compare un’altra, se possibile ancora più scioccante.

Tra pedofili, fattucchiere, ninfomani, mugnai impazziti e soldati russi di buon cuore, The Painted Bird non si risparmia proprio nulla, ma questo parossismo è giustificato dal contesto: l’insensatezza della guerra e dell’olocausto dev’essere rappresentata nella sua totale assurdità, e l’accumulazione dei fenomeni violenti – per quanto difficile da recepire – serve proprio a renderla ripugnante (senza eccedere nella spettacolarizzazione). Nonostante la lunga durata e la spigolosità dei temi, Marhoul confeziona un film dal respiro “popolare” e internazionale, sia per le indubbie qualità tecniche sia per i camei di prestigio che si alternano dall’inizio alla fine (Udo Kier, Stellan Skarsgård, Harvey Keitel e Barry Pepper). È inoltre il primo film recitato in lingua interslavica, creata per facilitare la comunicazione fra i popoli slavi: Marhoul evita così di ambientare la storia in una nazione precisa, schivando le potenziali polemiche. Astuto, come l’intera produzione.