L’ala progressista di Hollywood ha ormai trovato la chiave giusta per raccontare gli scandali finanziari del presente: attraverso la satira e la contaminazione dei registri (finzione e documentario, live-action e animazione), gente come Adam McKay avvicina il pubblico ai contorti retroscena dell’economia contemporanea, regalandoci un’amara risata che cerca di immettere nuova consapevolezza nel pubblico, più che arrendersi alla disillusione. The Laundromat si inserisce nel medesimo solco, e l’incipit dedicato alle origini del denaro rievoca le spassose lezioni di This Giant Beast That Is the Global Economy, serie prodotta dallo stesso McKay. Si può quindi parlare di un “filone”, o quantomeno di un’impronta comune a diversi progetti cine-televisivi: l’idea di esporre il capitalismo neoliberista nelle sue orribili storture, attraverso un’ironia di stampo didattico.
Steven Soderbergh è il cineasta ideale per proseguire su quel sentiero, e il caso dei Panama Papers gli offre la possibilità di esplorare il rapporto distruttivo fra big money e comuni cittadini (vittime inconsapevoli delle grandi manovre) nello scenario più ampio dei mercati globali. Non a caso, la nostra guida nel film è una vedova di nome Ellen Martin (Meryl Streep), che comincia a indagare su una polizza assicurativa falsa e scopre un’intricata rete di società offshore, affari illeciti e aziende fantasma che fanno capo a uno studio legale di Panama, fondato da Jürgen Mossack (Gary Oldman) e Ramón Fonseca (Antonio Banderas). Lo studio Mossack Fonseca ha uno scopo ben preciso: aiutare i più ricchi del mondo ad accumulare fortune persino maggiori, e i suoi contatti si ramificano ai quattro angoli del pianeta.
Anche per questo motivo, l’impostazione corale si addice particolarmente bene a un’opera come The Laundromat, che affastella diversi personaggi e segmenti narrativi legati allo studio, pur mantenendo il ruolo centrale di Ellen e degli stessi Mossack/Fonseca. Questi ultimi, peraltro, si comportano da anfitrioni: rompono la quarta parete per rivolgersi direttamente al pubblico, e sono i narratori inaffidabili di un “sistema” che pare ormai impossibile da smantellare. Il fascino che emanano è lo stesso dei soldi facili, seducente e inattendibile, ma la sceneggiatura di Scott Z. Burns (basata sul libro Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite di Jake Bernstein) ci mette in guardia dal pericolo dei capri espiatori: affaristi e maneggioni non fanno altro che approfittarsi di leggi inadeguate, come quelle americane, e gli Stati Uniti sono ampiamente complici di questo marciume.
Arrivati all’ottima sequenza finale, il disegno è ancora più chiaro. The Laundromat è una critica interna agli Stati Uniti d’America, un’opera realizzata da americani liberal che punta il dito contro le politiche finanziarie reazionarie e le falle legislative del paese: i riferimenti metacinematografici e il doppio ruolo di Meryl Streep – che nell’epilogo diventa addirittura triplo – sfondano le barriere tra realtà e finzione, ricordandoci le responsabilità delle istituzioni nel divario socio-economico tra i cittadini. L’ironia brillante sottolinea il lato grottesco di queste vicende, per risvegliare le coscienze e chiamare all’azione: rompere la quarta parete, come ne La grande scommessa di McKay, non è un espediente gratuito, ma il modo più semplice e diretto per coinvolgere gli spettatori in questioni che riguardano tutti. Soderbergh ci riesce senza retorica, con una visione lucida e una durata essenziale che danno luogo a un pamphlet cinematografico di indubbia efficacia.