Rambo: il soldato che non ha mai cercato la guerra

Rambo: il soldato che non ha mai cercato la guerra

Di Marco Triolo

Rambo: Last Blood arriverà il 26 settembre nelle sale italiane distribuito da Notorious Pictures. In attesa di rivedere in azione il soldato di Sylvester Stallone nella sua (forse) ultima avventura, abbiamo deciso di ripercorrere la sua storia, per scoprire come Rambo sia cambiato in quarant’anni di battaglie…

In origine ci fu una mela. Potete raccontarvela come volete, potete anche citare il fatto che, in giapponese, la parola “ranbō” significa “ruvido”, “violento”. Ma la verità è che il nome dell’eroe d’azione più celebre di tutti i tempi venne da una mela di origine svedese. La mela Rambo, che David Morrell, autore del romanzo First Blood, si ritrovò in casa proprio mentre stava cercando un nome per il protagonista del suo libro.

In origine ci fu anche Tomas Milian. Il “cubano de Roma”, celebre per i ruoli di Monnezza e Nico Giraldi nei polizieschi italiani, lesse il romanzo di David Morrell poco dopo l’uscita e tentò invano di realizzarne un adattamento in Italia. Non ci riuscì, ma si prese la sua piccola rivincita battezzando Rambo il protagonista de Il giustiziere sfida la città. Siamo nel 1975, sette anni buoni prima dell’uscita del film con Sylvester Stallone.

Rambo

Le origini di Rambo

Passo indietro. È il 1972 quando First Blood vede la luce. Gli Stati Uniti sono ancora invischiati nella Guerra del Vietnam, la debacle militare più clamorosa della loro storia. Morrell ascolta le storie dei suoi studenti tornati dal fronte, e ne trae ispirazione per raccontare la storia di un veterano che, tornato in patria, non riesce a riadattarsi alla vita civile. Il termine PTSD – la sindrome da stress post-traumatico – ancora non esiste. Ma è proprio di questo che soffre John Rambo.

Il romanzo è un successo e Morrell vende immediatamente i diritti di sfruttamento alla Columbia. Ma poi il progetto viene congelato per diversi anni, ed è solo grazie all’intervento dei produttori Andrew G. Vajna e Mario Kassar che riprende quota. A questo punto, però, succede una di quelle combinazioni astrali così rare da fare la storia del cinema: Sylvester Stallone è pronto per un altro round.

Potremmo spendere fiumi di parole sul fatto che Stallone, in quanto uomo di cinema a tutto tondo, è molto diverso da come viene generalmente percepito. Vi basterebbe guardare una sua intervista per capire quanto sia loquace e profondo nelle riflessioni, non certo il manzo senza cervello che si esprime a monosillabi buono solo per titillare le fantasie dei paninari. Guardando un po’ più in profondità, possiamo cogliere una decisa frattura tra l’immagine che Stallone autore aveva di sé a inizio carriera – lo sceneggiatore/regista/interprete figlio della New Hollywood – e quello che poi i casi della vita lo hanno portato a essere – l’icona muscolare del cinema action anni ’80.

Rambo

Da perdente a icona

Una frattura che possiamo notare sia nella saga di Rocky – provate ad accostare il primo al quarto e vedrete di cosa parliamo – che in quella di Rambo. Il primo Rambo è la storia di un underdog, di un perdente proletario e della sua rivincita contro un sistema che lo ha marginalizzato. Dal secondo in poi, l’eroe diventa quel sistema, diventa un’icona della filosofia reaganiana e un simbolo di un’America che, tra gli anni ’70 e ’80, era profondamente cambiata. Sono le due anime di Stallone: da un lato l’eroe working class, l’uomo qualunque che, pur perdendo secondo i canoni tradizionali, vince la sua battaglia personale. Dall’altro il superuomo, l’eroe temprato nell’acciaio che sbaraglia orde di nemici contando solo su forza e astuzia.

Il primo Rambo è dunque figlio del primo Stallone, tanto quanto i seguenti lo sono dello Stallone diventato mega-star. Stallone scrive il film di suo pugno, rielaborando precedenti sceneggiature e modificando ampiamente il testo di Morrell. Nel romanzo, non solo Rambo alla fine muore ucciso da Trautman, ma nel corso della storia uccide sistematicamente i suoi persecutori. Stallone qui ha l’intuizione geniale: Rambo non ammazzerà nessuno direttamente. E alla fine non morirà. C’è una precisa volontà autoriale dietro a queste scelte: è ora di superare l’immagine del reduce sbandato visto sotto una luce negativa, e di fare i conti con una generazione di persone traumatizzate e ferite a cui tutti hanno voltato le spalle. Se l’aneddoto dei pacifisti che sputano sui soldati al rientro dal Vietnam è un’esagerazione drammatica, il sentimento condiviso che Stallone intende veicolare è sincero e puntuale.

Rambo

Il prezzo del successo

Poi però succede che arriva il successo. Succede che, siccome fortunatamente il Rambo cinematografico non è morto, il mercato reclama i sequel. Arriva così Rambo II – La vendetta che, per quanto vituperato dalla critica, ottiene un successo clamoroso. Ed è talmente stipato di sequenze, immagini e battute leggendarie – dall’armamentario di Rambo al “Sono io che vengo a prenderti” – da diventare all’istante il capitolo più riconoscibile del franchise. Se oggi il vostro amico fanatico della sopravvivenza lo chiamate “Rambo”, o se ogni singolo sequel viene soprannominato “La vendetta”, lo dovete a questo film.

Nonostante il film, alla cui regia George Pan Cosmatos sostituisce Ted Kotcheff, sia concepito per essere semplicemente una schiacciasassi al botteghino, Stallone lavora in sottofondo per dotare la pellicola di temi ancora condivisibili. Sly riscrive una prima stesura a opera nientemeno che di James Cameron – che avrebbe dovuto essere una sorta di buddy comedy con Rambo in missione insieme a una spalla comica – e porta avanti il tema della spersonalizzazione di una società che volta le spalle all’uomo comune.

Un vero patriota

È difficile da capire per chi non è americano e vede Rambo come incarnazione del patriottismo più becero, ma in realtà l’eroe di Stallone e Morrell si fa qui portavoce di un patriottismo sano, a-politico. La cosa è evidente quando Rambo, tornato alla base per farla pagare a Murdock, scarica il suo mitra sui computer. È la vendetta del singolo contro uno stato che ha perso di vista i suoi figli, ed è diventato una fredda macchina comandata da burocrati. Ed è solo contando sulle proprie forze, senza gli ammennicoli forniti dalla società, che l’uomo può riprendere il controllo. “Voglio solo che il nostro paese ci ami quanto noi lo amiamo”, sentenzia alla fine Rambo.

Rambo II incassa 300 milioni di dollari nel mondo e trasforma il suo protagonista nel simbolo dell’America di Ronald Reagan. C’è una frase, pronunciata en passant nel film, che dà abbastanza chiaramente l’idea dello status di Rambo nell’immaginario collettivo: Murdock, leggendo il file di Rambo, dice che è di origini “indiane e tedesche”. Un mix incredibile, che dentro di sé ha tutta l’America – quella nativa e quella degli immigrati che l’hanno colonizzata. Rambo È gli Stati Uniti.

Rambo

Troppo grande per (non) fallire

E Sylvester Stallone, a quarant’anni, è la star più grande del mondo. È ricchissimo, ha talento e un fisico d’acciaio. Può uno così non montarsi la testa? La risposta è no. E infatti la cosa puntualmente accade con il successivo Rambo III, la cui ambizione sfugge di mano a Stallone. La star parla della “tela” del film, paragonandolo alla battaglia di Waterloo. “Questo film è una guerra cinematografica”, un progetto “così grande che dobbiamo costantemente pensare dieci scene in anticipo”. Stallone prende il controllo pressoché totale del progetto e, in maniera molto trumpiana, licenzia diversi membri della troupe e il regista prescelto, Russell Mulcahy (autore di Highlander), per affidare poi la regia a Peter MacDonald, regista della seconda unità di Rambo II.

Il risultato è un film di una spettacolarità impressionante e il film più costoso e violento mai realizzato fino ad allora, con 221 atti di violenza assortiti, almeno 70 esplosioni e 108 personaggi uccisi sullo schermo. È anche un’opera profondamente sbilanciata, in cui la spinta all’accumulo va a detrimento della trama e in cui, per la prima volta, manca l’ancora emotiva di Rambo, trasformato in macchietta. Quando libera Trautman e, insieme, affrontano le armate sovietiche in un gioco al gatto col topo, il film tenta maldestramente una virata verso quel buddy movie che Stallone aveva saggiamente evitato con Rambo II.

Ironia della sorte, la presa di posizione pro-mujaheddin del film, nata dal contrasto con l’URSS, sarebbe esplosa in faccia agli americani dopo l’11 Settembre. Ma nel film è l’unica cosa davvero interessante e originale. Rambo III è in sostanza un western revisionista con i ribelli afghani al posto degli indiani, un modo per fare ammenda per il passo falso del Vietnam prendendo, finalmente, la parte dei ribelli e dei patrioti contro le forze d’invasione.

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Sangue finto e voglia di riscatto

Passano dunque vent’anni. Nel frattempo, la carriera di Stallone si arena, finisce del direct to video. La star ha bisogno di una seconda chance. E l’unico modo in cui può ottenerla è resuscitare i suoi vecchi eroi. Prima arriva Rocky Balboa, enorme successo che lo riporta in vetta. Poi è la volta di John Rambo, con cui per la prima volta scrive e dirige un film della saga.

Il budget è decisamente inferiore rispetto agli exploit precedenti. Per ovviare al problema si sceglie di ridurre la scala del progetto e alzare il tasso di violenza esplicita (“Il sangue finto è economico”, avrebbe detto Stallone). Sly gira tutto guerrilla style, usando spesso la camera a mano e uno stile caotico eppure controllatissimo, come se “il film fosse diretto da Rambo”. La sceneggiatura è un po’ macchinosa, per come infila uno dietro l’altro gli archetipi del cinema d’avventura in maniera forzata. Eppure tutto funziona e, ancora una volta, Stallone dimostra di capire i suoi personaggi nel profondo. Il viaggio di maturazione di Rambo in questo film, che da reduce disilluso viene nuovamente a patti con la sua vera natura e la accetta, per arrivare, finalmente, a lasciarsela alle spalle, è perfetto. Se questo fosse stato l’ultimo Rambo, nessuno avrebbe avuto nulla da obbiettare.

Rambo

Ultimo sangue

Eppure Sly è uno che non ama lasciare le cose in sospeso. Quel finale, in cui John torna finalmente alla fattoria di suo padre in Arizona, apriva le porte a un altro film. Rambo: Last Blood arriverà il 26 settembre. E, già dal titolo, speculare al First Blood del primo film e del romanzo, promette di chiudere per davvero il cerchio.

Pensandoci, quella di Rambo è in effetti una saga palindroma. Inizia con un thriller intimista, continua con un action nel sudest asiatico, raggiunge l’apice del budget con il terzo film, torna al sudest asiatico e a un budget più contenuto con il quarto e, infine, torna in America nel quinto. Torna a una struttura più claustrofobica, almeno a giudicare dai trailer, nella quale Rambo gioca letteralmente in casa.

Niente male, per una saga nata da una mela.

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