Dopo aver scritto almeno un paio di romanzi notevoli come La congiura dei lunghi e soprattutto Un buon padre, dopo aver realizzato due serie TV di culto come Fargo e Legion, Noah Hawley ha esordito alla regia cinematografica con Lucy in the Sky. E lo ha fatto a modo suo, in maniera assolutamente personale. Il suo film si muove sempre su binari conosciuti eppure adoperati in maniera diversa, cacofonica, in modo da immergere lo spettatore in un mondo reale ma sempre leggermente scentrato, asimmetrico. Attraverso gli occhi della sua complessa protagonista Hawley costruisce un puzzle cinematografico che scivola quasi sempre dalle mani, diventando sequenza dopo sequenza sempre più ipnotico e doloroso. Hawley ha potuto farlo prima di tutto perché la sua visione si è poggiata su una sceneggiatura estremamente lucida nel delineare la psicologia di Lucy Cola (Natalie Portman), un’astronauta che dopo essersi confrontata con la vastità dello spazio aperto fatica a ritrovare il senso delle cose una volta tornata sulla Terra. Posto che un senso lo abbia mai trovato…
Il cineasta mette in scena l’universo di Lucy in the Sky adoperando il mezzo-cinema più basilare per creare lo straniamento necessario per raccontare il progressivo deragliamento psicologico ed emotivo della sua protagonista. Il film cambia spesso formato, a seconda del senso di soffocamento che Lucy sembra provare. Fragilissima nella gabbia di forza esteriore che si è costruita, la donna viene delineata attraverso pennellate di cinema tanto potenti nella visione quanto vere nel contenuto. Ecco quindi che il film dietro una confezione spesso sorprendente – ma mai esteticamente fine a se stessa – si dipana come un dramma psicologico molto preciso, attento nel raccontare un processo di auto-estraniamento come raramente se ne sono visti al cinema in questi anni. È una tematica cara ad Hawley, che ha già affrontato le derive di una mente fragile sia in Legion che nel già citato romanzo Un buon padre. A rendere il suo discorso ancora più prezioso è una Natalie Portman perfetta nel costruire una Lucy sfrontata e terrena nelle apparenze, sempre pronta a prendere tutto e tutti di petto per nascondere il meglio possibile le sue insicurezze e la sua confusione interiore. Il ritratto che l’attrice e il regista dipingono della psiche femminile risulta qualcosa per cui è impossibile non commuoversi.
Lucy in the Sky è un film fuori dagli schemi, che nn vuole ribaltare il linguaggio filmico per il puro piacere espressionista quando invece lo spinge ai limiti per mostrarci quanto la nostra normalità, la nostra realtà siano concetti sottili che possono essere sgretolati con il battito d’ali di una farfalla. Noah Hawley ce lo ha raccontato in un lungometraggio d’esordio davvero riuscito, un tour mentale ed emotivo che lo proietta definitivamente nel circolo degli autori più importanti dell’odierno showbusiness americano contemporaneo.