Film dopo film, James Mangold sta diventando uno dei pochi cineasti “classici” rimasti in circolazione. E non si tratta tanto di approccio “integralista” al genere – il suo ultimo Logan era ad esempio chiaramente un western camuffato da film di supereroi – quanto di ritmo della narrazione. Nei suoi film Mangold prende tutto il tempo necessario perché oltre alla storia vengano sviluppati con pienezza anche l’arco narrativo dei personaggi principali e i loro rapporti. Le Mans ’66 si sviluppa con l’ampiezza e la precisione di un progetto d’altri tempi, dove insieme allo spettacolo delle corse automobilistiche contano anche le scene in cui i protagonisti costruiscono amicizia, fiducia reciproca, rispetto per il carattere e la volontà altrui. Un altro fattore che rende questo un film “classico” (termine complesso da adoperare ma non abusato in questo caso) è il modo in cui vengono delineati i caratteri. Sia il Carroll Shelby interpretato da Matt Damon che il Ken Miles di Christian Bale sono figure carismatiche, che possiedono difetti e rimorsi ma non zone d’ombra che mettono in discussine il loro status, la loro visione del mondo.
Sotto questo punto di vista Le Mans ’66 è uno di quei film che se realizzati negli anni ‘40 o ‘50 avrebbero potuto essere interpretati da icone come John Wayne o Gary Cooper, tanto per rendere l’idea della portata del progetto. C’è un ordine morale nel lungometraggio di Mangold, un codice virile che accomuna compagni di team quanto gli avversari. A ben vedere il film parla di possedere una visione e cercare di tramutarla in realtà, che si tratti di Enzo Ferrari, Henry Ford II, dei piloti che corsero la 24 ore di Le Mans o dei meccani che glielo permisero. Non ci sono dicotomie concettuali o psicologiche che si contrastano, soltanto modi differenti di arrivare a un obiettivo comune. Per questo l’universo filmico che contiene storia e personaggi consente allo spettatore di godere in pieno uno spettacolo molto ben costruito, nell’estetica quanto nello sviluppo narrativo.
Per quanto riguarda le interpretazioni di un cast a dir poco ammirevole, ogni attore dimostra di aver capito l’epica e il respiro del film ed essersi immerso nel proprio ruolo di conseguenza. La misura e il timbro delle diverse performance è stato settato da Mangold con una coerenza molto rara da trovare anche in produzioni di questo genere. Dal momento che sarebbe fin troppo facile il carisma di Bale e Damon noi vogliamo invece applaudire la solidità di Jon Bernthal, sempre più capace di diventare “spalla” in grado di elevare la prova di colleghi oltre che la propria.
Cinema d’altri tempi quello di Le Mans ’66? Certo, e ben venga! Noi abbracciamo senza riserve un tipo di intrattenimento che allo spettacolo abbina il gusto pieno per la narrazione, non solo quella degli eventi ma anche (forse soprattutto) delle persone e dei rapporti umani che hanno permesso agli eventi stessi di accadere. È la materia di cui un film dovrebbe essere fatto…