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Ema è un atto d’amore: la recensione del film di Larraín da Venezia 76

Pubblicato il 01 settembre 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Dopo la memorabile trilogia ambientata negli anni di Pinochet, il cinema di Pablo Larraín ha cominciato a muoversi in territori imprevedibili che paiono guidati dalle esigenze del subconscio, tra scarti improvvisi e narrazioni rarefatte. In tal senso, Ema è forse l’opera più spiazzante della sua prestigiosa carriera (almeno finora), perché del subconscio sembra replicare le dinamiche associative, articolando un racconto impressionista che lascia interdetti per buona parte della sua durata.

L’eponima protagonista, interpretata dall’attrice cilena Mariana Di Girolamo, è la ballerina di una compagnia di danza diretta da Gastón (Gael García Bernal), con cui Ema ha una relazione. L’inizio in medias res è già disorientante, ma un risvolto della trama è subito chiaro: lei e Gastón hanno rinunciato a Polo, il figlio che avevano adottato, perché spaventati dalle sue gravi intemperanze. Ema si sente però in colpa, vuole assolutamente riavere il bambino, e vaga per la città di Valparaíso in cerca di relazioni sessuali, contatti umani, atti di sfogo. Con Gastón si dedicava al teatro-danza, mentre ora preferisce esibirsi in sensuali balli reggaeton, dove ritrova una forma di erotismo che la fa sentire libera.

Nelle sue peregrinazioni si potrebbe nascondere un piano preciso, ma questo non è chiaro fin dall’inizio. Larraín e il montatore Sebastián Sepúlveda scompongono il tessuto della storia in una concatenazione di sequenze non lineari, che non si limitano a saltare avanti e indietro nel tempo, ma sono anche inframezzate da scene di ballo vagamente oniriche, spesso decontestualizzate. C’è una sola costante, ed è Ema: una donna che dona tutta se stessa alla macchina da presa, centro gravitazionale attorno cui ruota l’intero film. Se l’incipit non offre alcun punto di riferimento, la comprensione del quadro generale avviene per gradi, mentre la sceneggiatura imbocca una parabola ascendente che non si ferma più.

Di fatto, Ema è un atto d’amore sul corpo e sullo sguardo di Mariana Di Girolamo, emblema di una libertà che proprio attraverso il corpo trova la sua maggiore espressione. Il memorabile monologo di Bernal contro il reggaeton denuncia la reificazione della donna in termini sessuali, ma la risposta è chiara: Ema e le sue amiche gestiscono il proprio corpo senza costrizioni esterne, e il ballo è un modo per sfogare gli impulsi carnali, rivivendo quell’orgasmo che ha dato vita al mondo. Manifestando questa libertà, l’eroina del film riassembla i pezzi della sua esistenza fratturata, e si afferma come una forza esplosiva che attrae ambo i sessi e stravolge la famiglia tradizionale (creandone al contempo una nuova, più inclusiva e aperta).

Larraín celebra così il potere universale del femminino e la sua capacità di stimolare il cambiamento. Lo fa con audacia, rischiando lo scult in alcune scene iniziali, ma ha l’intelligenza di affidarsi interamente alla protagonista, pedinandola e accarezzandola in ogni suo sforzo. Basta lasciarsi trascinare insieme a lui per godere della stessa energia: di fronte alle nuove minacce di svalutazione del corpo, Ema lo riporta al centro del discorso per riscoprirne il potere sconvolgente, spesso salvifico. Non è cosa da poco.