Alcuni registi sembrano avere l’anima divisa in due: la loro filmografia alterna luce e ombra, dolcezza e brutalità, fiaba e nichilismo, senza mai schierarsi definitivamente da una parte o dall’altra. Il caso di Danny Boyle è piuttosto significativo in tal senso, poiché il cineasta di Manchester – nato nel 1956 da due immigrati irlandesi della classe operaia – scarta fra generi e registri diversi con una scioltezza forse inaspettata, soprattutto per chi pensava di averlo inquadrato dopo i suoi primi film.
D’altra parte, non bisogna dimenticare che la formazione di Boyle è molto eterogenea, e questo favorisce la varietà dei suoi gusti. La madre vuole che prenda i voti, ma un prete – curiosa ironia – lo scoraggia dall’entrare in seminario, cambiando di fatto la sua vita: «Non so se abbia salvato me dal sacerdozio o il sacerdozio da me, ma subito dopo ho cominciato a fare teatro» dichiarerà il regista al Sun nel 2009, mentre il suo The Millionare domina la stagione dei premi. Così, il giovane Danny studia inglese e teatro all’University College of North Wales (ora Bangor University), poi si unisce alla Joint Stock Theatre Company e lavora presso il Royal Court Theatre, dove dirige alcuni spettacoli a partire dal 1982. Firma inoltre la regia di cinque produzioni della Royal Shakespeare Company, mentre nel 1987 passa alla BBC Northern Ireland, come produttore e regista di spettacoli televisivi.
Il suo grande amore per il cinema – nato dalla visione di Apocalypse Now quando aveva 21 anni – lo spinge però verso il grande schermo, dove esordisce nel 1994 con Piccoli omicidi tra amici.
Piccoli omicidi tra amici (1994)
Il successo è immediato, e forse anche inatteso. Questa piccola commedia nera su tre inquilini di Edimburgo che si contendono una valigia piena di soldi – presentata a Cannes nella stessa edizione di Pulp Fiction – diventa il film britannico di maggior successo del 1995, e vince anche il BAFTA come Miglior Film. Oltre a lanciare il ventitreenne Ewan McGregor nel cinema internazionale, Piccoli omicidi tra amici dimostra il talento di Boyle per i toni caustici e i ritmi sincopati, che in Trainspotting trovano la loro espressione più alta: siamo nella seconda metà degli anni Novanta, terreno fertile per il pulp e per le storie di umana bassezza, quindi l’adattamento del romanzo di Irvine Welsh non potrebbe arrivare in un momento migliore.
L’idea nasce dal produttore Andrew MacDonald, che legge il libro nel 1993 e lo propone a Boyle l’anno successivo, a pochi mesi del debutto di Piccoli omicidi tra amici. Lo sceneggiatore di quest’ultimo, John Hodge, comincia a lavorarci non appena Welsh accetta di concedere i diritti per la trasposizione: Danny gli assicura che MacDonald e Hodge sono «gli scozzesi più importanti dai tempi di Kenny Dalglish e Alex Ferguson», ma l’aspetto che convince maggiormente lo scrittore di Edimburgo è l’approccio proposto dal trio. Alcuni avevano già provato a opzionare i diritti del libro, solo che volevano realizzare un adattamento serioso e melenso, «un pezzo di realismo sociale come Christiane F. e Ritorno dal nulla», per citare lo stesso Welsh; al contrario, Boyle, MacDonald e Hodge hanno in mente un film esplosivo ed energico, che si rivolga anche alle grandi platee.
Ewan McGregor, che aveva impressionato il regista in Piccoli omicidi tra amici, viene scritturato nel ruolo di Mark Renton, eroinomane di Edimburgo che vive alla giornata con gli amici Simon “Sick Boy” Williamson, Daniel “Spud” Murphy, Francis “Franco” Begbie e Thomas “Tommy” MacKenzie. Ciò che ne risulta è uno dei film-simbolo degli anni Novanta, nonché uno dei più rappresentativi della Generazione X: Boyle realizza un’opera che viaggia alla stessa velocità del suo target ideale, cogliendone sia il disincanto sia il desiderio di evasione. Se negli anni Ottanta ci si poteva ancora crogiolare in abbagli edonistici, nei Novanta l’illusione è finita, ed è degenerata in un incubo laido, allucinato e sarcastico. Il consumo di stupefacenti non è più un mezzo per espandere la percezione, ma un sedativo per dimenticare le ansie del quotidiano e l’ombra della precarietà socio-economica: un ribaltamento dell’utopia hippie che rilegge con audacia la tradizione del cinema sociale britannico. Trainspotting guadagna così un’immediata fama “di culto”, e si fissa nell’immaginario collettivo anche grazie al suo monologo finale, in cui Renton dichiara di aver rinunciato all’eroina per abbracciare “la vita”, ovvero quell’insulsa norma sociale che è sinonimo di rispettabilità:
La verità è che sono cattivo, ma questo cambierà, io cambierò, è l’ultima volta che faccio cose come questa… metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto. Scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora. Diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico. Buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai-da-te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario di ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, natali in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai.
Trainspotting (1996)
Per Danny è la consacrazione definitiva, il successo che mette il suo nome sulla mappa del cinema contemporaneo. I suoi film successivi sono però dei passi falsi, almeno in termini di popolarità e ricezione critica: dopo aver rifiutato la regia di Alien: La clonazione, dirige il flop Una vita esagerata (1997) e poi The Beach (2000), basato sull’omonimo romanzo di Alex Garland, vero e proprio cult fra i viaggiatori con zaino in spalla. Affossato dalla critica, il film costa a Danny Boyle anche la sua amicizia con Ewan McGregor, cui era stato inizialmente affidato il ruolo di protagonista: pare che i produttori abbiano offerto maggiori finanziamenti in cambio del casting di Leonardo DiCaprio, ma sono solo speculazioni prive di conferme.
In compenso, Boyle e MacDonald entrano in contatto con Garland, che ha in mente il soggetto per un film di zombie “velocisti”. L’idea non è nuova (Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi e Il ritorno dei morti viventi di Dan O’Bannon c’erano arrivati prima), ma l’horror che nasce dagli sforzi di Garland e Boyle rilancia il concetto a livello globale: il film è ovviamente 28 giorni dopo (2002), storia di un’epidemia virale che provoca il collasso della società civile, trasformando gli infetti in creature irragionevoli e furiose. L’ottimo successo commerciale e il plauso della critica rivelano che Boyle ha la mano sicura anche nel cinema di genere, dimostrandosi capace sia di costruire la tensione sia di confezionare immagini ad alto impatto suggestivo, come le inquadrature di una Londra post-apocalittica. Inoltre, conferma il suo talento nel consacrare giovani attori: in tal caso è l’irlandese Cillian Murphy.
28 giorni dopo (2003)
A questo punto, però, la sua carriera fa una deviazione piuttosto brusca. Forse desideroso di mostrare le sue capacità in un cinema meno ruvido e aggressivo, dirige Millions (2004) su sceneggiatura di Frank Cottrell Boyce, anche autore del romanzo da cui è tratta. Boyle, senza trascurare l’ambiente sociale che circonda il giovane protagonista, realizza stavolta una fiaba tenera e delicata, dove un bambino cattolico entra in possesso di una borsa contenente 250 mila sterline, e cerca di utilizzarli per aiutare i bisognosi. Lo stile nervoso e lisergico del regista inglese si adatta bene anche a questo contesto, soprattutto per mettere in scena i sogni del piccolo Damian, che parla con i santi e con la madre defunta.
Pur non essendo uno dei suoi film più noti, Millions rappresenta una svolta nel modo in cui Danny Boyle viene percepito dal pubblico: non solo legato a storie caustiche e brutali, ma aperto a orizzonti più ampi, anche in fatto di target. Il successivo Sunshine (2007) è un’altalenante space opera che omaggia Alien e 2001: Odissea nello spazio, scritta ancora da Garland: il validissimo cast – dove ritorna Cillian Murphy – è al centro di sequenze molto affascinanti, ma la svolta slasher dell’ultima parte suona troppo forzata e gratuita, incoerente con il passo contemplativo del film.
Stremato dalla complessa produzione di un film di fantascienza, Boyle torna sulla Terra e dirige l’opera che cambia nuovamente la sua carriera: il già citato The Millionare (2008). Simon Beaufoy, lo stesso di Full Monty, scrive la sceneggiatura ispirandosi al libro Le dodici domande di Vikas Swarup, ed è proprio la sua presenza a convincere il cineasta, che all’inizio non era interessato a un film su Chi vuol essere milionario. Ovviamente The Millionare è molto più di questo: Beaufoy vuole esplorare la comunità dei bambini che vive in una baraccopoli di Mumbai, concentrandosi su un ragazzo – interpretato da Dev Patel – che ricorda il suo passato mentre partecipa al celebre gioco televisivo, interrogato dalla polizia perché sospettato di barare. Boyle e lo sceneggiatore bilanciano la crudezza dell’ambiente sociale e la spinta propulsiva della giovinezza, creando uno dei feel-good movie più celebri degli anni Duemila. Non a caso, The Millionaire fa razzie alla stagione dei premi: si aggiudica ben otto Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regista e Miglior Sceneggiatura Non Originale, ma anche sette BAFTA, cinque Critics’ Choice Awards e quattro Golden Globe.
The Millionaire (2008)
Adesso che ha ricevuto gli onori dell’Academy, Danny Boyle è un regista dalle prospettive ancora più ampie, pronto a confrontarsi con storie sempre più globali ed eterogenee. Così, decide di girare il suo primo film tratto da una vicenda realmente accaduta, narrata dall’alpinista Aaron Ralston nel libro autobiografico Between a Rock and a Hard Place: il risultato è 127 ore (2010), tesissimo e ipnotico «action movie con un tizio che non può muoversi», per citare le parole del regista. Al centro della trama c’è infatti l’incidente capitato a Ralston, che resta bloccato in un canyon dello Utah con un masso che gli schiaccia il polso destro, ed è costretto ad amputarlo dopo cinque giorni di agonia. Boyle scrive la sceneggiatura con Beaufoy, e sfrutta il suo talento visivo per evocare i sogni e le allucinazioni di Ralston, infondendo dinamicità a una condizione di stasi. Ne risulta una delle sue opere migliori, molto amata dai critici e dal pubblico. Stavolta le candidature ai premi Oscar sono sei, tra cui la nomination come Miglior Attore Protagonista a James Franco: non ne porta a casa neanche uno, ma è comunque un successo.
Discorso diverso per Trance (2013), thriller psicologico che passa quasi inosservato, ma che conferma la sua tendenza verso un cinema più pulito e stiloso rispetto agli esordi. Ormai Danny è quel tipo di cineasta a cui gli studi hollywoodiani si rivolgono per i propri film più prestigiosi, e infatti la Sony gli propone di dirigere Steve Jobs (2015) dopo l’abbandono di David Fincher. Il biopic sul co-fondatore della Apple è un’opportunità imperdibile: Jobs è una delle figure più controverse degli ultimi trent’anni, e inoltre la sceneggiatura è scritta dal grande Aaron Sorkin, che di fatto reinventa il genere “biografico”. Invece di raccontare didascalicamente la storia dell’imprenditore californiano, Sorkin isola tre momenti chiave della sua carriera (le presentazioni del Macintosh 128K nel 1984, del NeXT Computer nel 1988 e dell’iMac nel 1998) per illustrarne i retroscena professionali e familiari, dai quali emergono non soltanto la personalità e la psicologia dell’individuo, ma anche la sua influenza sull’immaginario contemporaneo; il tutto attraverso quella pregevole concatenazione di dialoghi brillanti, fitti e taglienti nei quali Sorkin è un assoluto maestro.
Boyle si mette al servizio del copione e dei suoi bravissimi attori (Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels…), cavalcando il ritmo dei dialoghi con il suo stile veloce e le sue digressioni visionarie. Non è solo uno dei film migliori del regista inglese, ma anche uno dei più riusciti del 2015: peccato che gli Oscar concedano una nomination solo a Fassbender e Winslet, ignorando colpevolmente la sceneggiatura di Sorkin; in compenso, i Golden Globe premiano sia quest’ultimo sia la stessa Winslet, che presta il volto a Joanna Hoffman.
Steve Jobs (2015)
Purtroppo anche Steve Jobs, come Trance, non è un buon successo commerciale, e allora Boyle si rifugia nell’usato sicuro: il 2017 è infatti l’anno di T2 – Trainspotting, sequel del suo film più famoso, scritto ancora da John Hodge a partire da Porno di Irvine Welsh. La forza dirompente dell’originale è però un lontano ricordo, poiché T2 si ripiega su se stesso, fagocita il suo passato e si comporta come un cinquantenne che ripensa con nostalgia a una giovinezza irripetibile. Tra autocitazioni e fan service, il sequel piace comunque al pubblico, curioso di scoprire le sorti di Renton, Sick Boy, Spud e Franco dopo circa vent’anni di assenza.
In seguito a questo salto nel passato, Boyle sembra sul punto di dirigere il suo primo blockbuster d’azione, e nel 2018 firma per la regia di No Time to Die, nuovo 007 con Daniel Craig. Dopo pochi mesi, però, abbandona il progetto per divergenze creative (sarà sostituito da Cary Joji Fukunaga), e sceglie di dedicarsi a un film completamente diverso: Yesterday, scritto da Richard Curtis a partire da un’idea di Jack Barth e Mackenzie Crook. Ecco riemergere la doppia anima di Danny Boyle, quell’alternanza tra luce e ombra che caratterizza tutta la sua filmografia. Yesterday è infatti un altro feel-good movie, ma anche un film dove il regista inglese fa un passo indietro per lasciare spazio a Curtis, acclamato sceneggiatore di Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill e Love, Actually. Nel raccontare la storia di un musicista spiantato (l’ottimo Himesh Patel) che scopre di essere l’unico a ricordare la musica dei Beatles, Boyle realizza una piacevolissima commedia romantico-musicale, lontana da qualunque altro lungometraggio abbia diretto in passato: una dolce storia d’amore che evidenzia il peso dei Beatles nell’immaginario condiviso, e offre una grande catarsi collettiva che sfiora il vertice in una scena delicatissima e toccante.
È la prova di maturità per un cineasta che sa lavorare sui registri più disparati, sfidando se stesso su terreni contrastanti, ma non inconciliabili. Perché, se ami i Beatles, nulla ti impedisce di amare anche i Rolling Stones.
Yesterday (2019)