Come Quentin Tarantino ha cambiato il cinema (e i nostri gusti)

Come Quentin Tarantino ha cambiato il cinema (e i nostri gusti)

Di Lorenzo Pedrazzi

Non si diventa il regista più popolare del mondo senza costruire un proprio retaggio, e Quentin Tarantino lo sa fin troppo bene. Se è vero che molti spettatori non hanno ben chiaro il ruolo del regista nella produzione cinematografica (o che dietro quelle immagini in movimento possa esserci un vero e proprio autore, con un suo stile e una sua poetica), Tarantino è uno dei pochissimi cineasti che quasi tutti riescono a identificare con una personalità precisa, sapendo esattamente cosa aspettarsi quando vedono un suo film. Tra i registi in attività, solo Steven Spielberg e forse Christopher Nolan possono vantare questo tipo di fama “popolare”, e non è cosa da poco: mentre l’educazione all’immagine resta carente, questi autori hanno il pregio di trasmettere la propria impronta personale su vasta scala, comunicando anche con il pubblico meno smaliziato (al di là dei giudizi critici sulle loro opere).

Il punto, però, è che nessuno come Quentin Tarantino ha influenzato l’immaginario collettivo negli ultimi ventisette anni, ovvero da quando Le iene (1992) è apparso nelle sale cinematografiche. Non si tratta solo di scene iconiche ormai radicatesi nella memoria, ma di un impatto più ampio che agisce a livello quasi inconscio: il cinema di Tarantino viene citato dalla moda, dal marketing, dagli spot televisivi, da altri film e persino dal linguaggio comune, a dimostrazione di quanto esso abbia condizionato i nostri gusti e l’industria di Hollywood.

Le iene (1992)

Quando si parla di Quentin Tarantino, spesso si fa riferimento alla radicale cinefilia che trova spazio in ogni suo film, e che riflette il suo bagaglio culturale. Non è una novità di per sé: anche i registi della Nouvelle Vague erano ferventi cinefili, mentre la generazione di George Lucas, Steven Spielberg, Martin Scorsese e Francis Ford Coppola è stata la prima a uscire dalle scuole di cinema, con tutto il bagaglio storico che ne consegue. La differenza è che Tarantino, arrivato una generazione dopo, si è formato da autodidatta sull’home video, poiché ha avuto a disposizione quella risorsa rivoluzionaria che furono le VHS. Non a caso, negli anni Ottanta lavorava presso un videonoleggio di Manhattan Beach, quindi era circondato da un vastissimo patrimonio cinematografico proveniente da tutto il mondo, facilmente accessibile in qualunque momento: un sovraccarico di stimoli che tuttora riecheggia nelle sue opere, eliminando il confine tra l’immaginario del regista e la sua arte.

Con queste premesse, è facile vedere in Tarantino un alfiere dell’Avant-Pop e del postmodernismo, che anche grazie a lui sono divenuti di dominio globale. Risulta chiaro fin dall’incipit de Le iene: i gangster, riuniti in una tavola calda, parlano del significato implicito di Like a Prayer di Madonna, blaterando senza posa. Il cinema accoglie la cultura pop e i mass media per integrarli nel proprio tessuto espressivo, creando una macronarrazione in cui tutti possono immedesimarsi, emblema di una società sempre più interconnessa. Imbevuto di cinema, televisione e musica, Tarantino li riversa in tutto ciò che tocca: ne deriva un’arte che rifiuta la vecchia linearità del racconto, le strutture tradizionali e le barriere tra i generi, in favore di un’esplosione sincretica che espande la sua onda d’urto sull’intera memoria condivisa.

La frammentazione temporale del racconto è uno degli effetti più tangibili, e si ripercuote in tutta la filmografia tarantiniana. Spesso le sue storie mostrano il destino di un personaggio prima ancora di rivelarne il passato, o mettono in scena le conseguenze di un’azione prima delle sue premesse: l’analessi è quindi una costante nelle sue sceneggiature, utile per rendere imprevedibile la trama e sorprendere il pubblico con svolte inattese. Non c’è spazio per i cliché o per gli archetipi narrativi, che generalmente vengono stravolti o sbeffeggiati; Tarantino preferisce lavorare da guastatore, distruggendo i modelli e ricostruendoli secondo il proprio gusto.

Kill Bill: Vol. 1 (2003)

È un cinema che tende ad auto-mitizzarsi, ovvero a imporsi autonomamente come un linguaggio stiloso e iconico: basti pensare all’attenzione riservata ai costumi (spesso i personaggi indossano abiti ricorrenti e subito riconoscibili), ma anche alla furbizia di alcuni espedienti che giocano a coinvolgere il pubblico nella narrazione, come il nome della Sposa coperto da un “bip” in Kill Bill: Vol. 1. L’estrema autoconsapevolezza dei suoi film, che spesso rompono la quarta parete e sfociano nel metacinema, non li rende però delle monadi eterne e indivisibili: al contrario, si nutrono degli influssi di altre opere, straripano di citazioni e omaggi sofisticati. In alcuni casi sono rielaborazioni creative di film esistenti, come Le iene rispetto a City on Fire di Ringo Lam, o The Hateful Eight rispetto a Il grande silenzio di Corbucci e La cosa di Carpenter.

Tarantino però non “copia”, ma celebra i suoi modelli in modo personale, filtrandoli attraverso uno sguardo postmoderno che stravolge i contesti (geografici, culturali, cinematografici…), interseca i generi e cambia i registri. I suoi “numi” sono Sergio Leone, Jean-Luc Godard, Roger Corman, Lucio Fulci, Jean-Pierre Melville, Brian De Palma, Martin Scorsese, Umberto Lenzi e molti altri, eppure Tarantino li rilegge con l’occhio disperatamente consapevole del cinefilo, che impone giocoforza una maggiore ironia. Le esplosioni violente e i lunghi dialoghi volutamente banali di Pulp Fiction (laddove con “banali” s’intende il soggetto del discorso: i fast food, i pilot delle serie tv…) sono frutto di una stilizzazione ironica che demistifica ogni spargimento di sangue, consentendoci di fare un passo indietro e osservare il tutto dalla distanza.

Anche questa non è una novità (David Lynch, come faceva notare David Foster Wallace, ci è arrivato prima), ma Tarantino è il cineasta che ne ha fatto un vero e proprio “sistema”, interiorizzandolo come un marchio. Soprattutto a partire da Pulp Fiction, il suo cinema è stato identificato con i dialoghi brillanti e surreali (eredità di Elmore Leonard, da cui peraltro ha tratto Jackie Brown), l’ultraviolenza parossistica, il recupero di vecchi successi pop/rock e la legittimazione di generi come l’exploitation o l’hard boiled, che escono dalle loro “nicchie” e incontrano un successo universale. L’aggettivo “tarantiniano” si riferisce proprio a una combinazione di questi elementi, che in pochi hanno saputo gestire con altrettanta sincerità: tra gli americani, gli unici sono forse Roger Avary e Robert Rodriguez, guarda caso amici e collaboratori del nostro (non dimentichiamo che Avary condivide con Tarantino l’Oscar per la sceneggiatura di Pulp Fiction, pur essendo accreditato solo come co-autore della storia).

Pulp Fiction (1994)

Proprio la sua cinefilia – unita al successo dei suoi film – lo ha reso una sorta di opinion leader della Settima Arte, e i suoi pareri ricevono sempre una grande attenzione mediatica. Un’opera prodotta o presentata da Quentin Tarantino farà sempre più rumore di una pellicola che non reca il suo brand nei titoli di testa, e il paradosso di Hero lo dimostra: un regista come Zhang Yimou non avrebbe certo bisogno di presentazioni, eppure l’endorsement del regista americano è stato decisivo per la distribuzione del film sul mercato statunitense, con tanto di cartello “Quentin Tarantino Presents” nei crediti.

La sua influenza sui gusti del pubblico è tale da aver stimolato una rivalutazione pressoché globale dei cosiddetti b-movie (ammesso che questa definizione abbia un senso), o comunque di quel vastissimo cinema di genere che spazia dagli spaghetti western al poliziottesco, dall’horror italiano alla commedia sexy, dal wuxia ai ganster movie di Hong Kong, dai film di Bruce Lee a quelli di Takashi Miike, dall’exploitation alla blaxploitation. La filmografia di Tarantino copre questo ampio spettro cinematografico con cura maniacale, spesso traslando in scioltezza da un genere all’altro come accade nei due volumi di Kill Bill.

Ogni suo film è una dichiarazione d’amore, non solo per un filone specifico, ma per il cinema stesso. Lo urla persino sul set («Because we love making movies!» gridano in coro lui e i suoi collaboratori quando rifanno una scena), perché Tarantino nel cinema ci crede, e lo fa con una passione viscerale che non ha molti eguali: l’epilogo di Bastardi senza gloria è emblematico di questa sua fiducia nella Settima Arte come motore propulsivo di rivoluzione storica, nonché strumento privilegiato della catarsi collettiva. E lo splendido C’era una volta…a Hollywood, tra nostalgia e rievocazione immaginaria, ne ripercorre le tracce per confermare la stessa fede, la stessa idea di un cinema capace di ribaltare le sorti del mondo. Anche per questo, è inevitabile sentirsi tutti un po’ coinvolti.

C'era una volta...a Hollywood
C’era una volta…a Hollywood (2019)

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