C’era una volta… Tarantino

C’era una volta… Tarantino

Di Roberto Recchioni

Sarò rapido.

Tanto di analisi minuziose di questo film, ne troverete a tonnellate nei prossimi giorni e io non sono intenzionato a dilungarmi troppo con l’approfondimento di tutti gli infiniti dettagli, rimandi, citazioni e appropriazioni indebite che caratterizzano da sempre i lavori di Tarantino.
L’ho fatto in passato e non mi va di farlo più perché, a mio modo di vedere, questa roba ha smesso di essere un valore aggiunto ma è solo metodo applicato. Tarantino lavora così, non c’è più niente di cui stupirsi o da analizzare.
Una breve premessa prima di cominciare: amo molto il cinema di Tarantino, l’ho studiato fino alla nausea e credo di conoscerlo molto approfonditamente. Fino a questo momento, la forchetta qualitativa dei suoi film si è mossa tra l’otto e il dieci (ammesso che questi voti abbiano mai avuto un senso alcuno). Quindi il mio giudizio non è condizionato da uno spirito critico aprioristico. Di contro, non sono un fanboy, ho sempre visto le sue furbizie, le sue piccole (e, in alcuni casi, grandi) ipocrisie e un certo manierismo insito nella sua idea di cinema. Per questo non penso che il mio giudizio sia accostabile a quello di un fanboy duro e puro.
Detto questo, il film mi è abbastanza piaciuto per alcune cose e non mi è piaciuto per nulla per altre, penso che sia discreto come film in senso assoluto ma, allo stesso tempo, il peggiore mai scritto e girato dal regista. Un sei e mezzo, insomma, che è uno di quei voti intermedi che, nella società assolutistica di Internet dove le cose o sono un capolavoro o sono merda fumante, non soddisfa nessuno. Ma tant’è.
Partiamo dalla cose che non ho apprezzato, così ce le leviamo di mezzo.

– Tutta la tensione narrativa deriva da cose che stanno fuori dal film e non dentro.

In sostanza, le vicende prendono le mosse alcuni giorni prima che la Family di Charles Manson entri a casa di Polański e faccia una strage. E il film è scandito come un conto alla rovescia verso quel terribile evento. Questa cosa però, lo spettatore deve saperla prima, perché nel film non viene raccontata. Come non viene indicato chi è Charles Manson (che appare brevemente ma non è mai direttamente individuato o chiamato per nome) e gli altri componenti della sua banda. Ora, nella cultura americana, i dettagli della strage compiuta da Manson fanno parte del bagaglio culturale comune, ma non è lo stesso nel resto del mondo. Se uno spettatore, magari giovane, dovesse vedere il film senza sapere nulla dei reali fatti di cronaca, semplicemente non capirebbe la sua struttura, non avvertirebbe alcuna tensione nello scorrere dei giorni e non avrebbe alcuna coordinata per capire cosa sta guardando (come la scena con Manson, appunto).

Per uno spettatore consapevole e informato questo potrebbe essere un difetto da nulla, ma io sono fermamente convinto che un film debba esistere e avere un senso al di là della realtà con cui si va ad interfacciare e, in questo caso, così non è.

– Il film porta in scena una Los Angeles e una Hollywood dei tardi anni sessanta che non ha nulla a che spartire con quella reale ma che è, solamente, la maniera in cui Tarantino (autore che quegli anni non li ha vissuti) ha deciso di immaginarla. Il risultato, per quanto suadente, è fasullo, un poco furbetto e molto manicheo, alla stessa maniera in cui fasulli, furbetti e manichei sono gli anni ‘80 di Stranger Things. Ma se a una serie televisiva commerciale che cerca di farsi notare cavalcando l’onda della nostalgia, posso anche perdonare una atteggiamento così ruffiano, trovo che sia imperdonabile per un film con ben altre ambizioni. In questo senso, Tarantino si mostra come un nerd nemmeno troppo colto (infila un paio di svarioni sulla storia del cinema, specie quello italiano, piuttosto grossolani nella pellicola), piuttosto che come una vera voce autoriale capace di reinventare la realtà secondo la sua visione.

– Il colpo di scena, per chi ha visto gli altri film di Tarantino, è telefonatissimo.

– Lo strisciante messaggio di fondo che porta avanti la tesi che gli Stati Uniti di un tempo, quelli prima della rivoluzione della controcultura, fossero un posto bello e pieno di valori, mentre quelli successivi abbiano rappresentato un imbarbarimento culturale. In questo senso, Tarantino sta prendendo posizioni sempre più da vecchio fascio che guarda i cantieri.

– I personaggi reali ridotti a ridicole macchiette uscite da una lunghissima barzelletta tarantiniana, non particolarmente divertente. Bruce Lee e Steve McQueen si meritavano di meglio.

– Il film dura davvero troppo e non ha molto da dire.

Passiamo alle cose che mi sono piaciute:

– La consueta grammatica cinematografica tarantiniana che, da sempre, è riuscita a fondere assieme (in maniera armonica) la Nouvelle Vague francese con il cinema d’explotation , gli stilemi della cinematografia di Hong Kong degli anni ‘90 con quelli del cinema hard boiled americano degli anni ‘40, gli spaghetti western con l’avanguardia, il sacro con il profano.

– La colonna sonora. Tarantino ne ha mai sbagliata una?

– Il montaggio.

– Alcune scenette sparse.

– Il finale, che per quanto scontato, rimane uno spasso.

Margot Robbie. Che chiamata a rappresentare una musa praticamente muta, lo fa con grande dignità.

Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. Due giganti assoluti che, per tutta la vita, hanno cercato di rifiutare l’etichetta di divi che gli veniva appiccicata addosso e che in questo film, invece, la abbracciano in pieno. Non sono mai stati così belli. Non sono mai stati così irraggiungibili. Non sono mai stati così bravi. Non sono mai stati così divertiti. Magnifici. Immensi. Impossibili.

Concludendo, un film trascurabile nella filmografia dell’autore, che sembra aver finito le idee ed essere entrato in una fase di stanca che lo sta portando a cannibalizzarsi e a diventare sempre più autoreferenziale.

Ma è comunque meglio di gran parte dei film che troverete in giro.

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