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Babyteeth è un esordio da ricordare: la recensione da Venezia 76

Pubblicato il 04 settembre 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Shannon Murphy, regista australiana che si è fatta le ossa in televisione, trova nel testo drammaturgico di Rita Kalnejais una valida occasione per esordire sul grande schermo: il risultato è questo Babyteeth, unico debutto tra i film in concorso a Venezia 76, scritto dalla stessa Kalnejais con una grazia non comune.

Raramente il tema della malattia viene trattato con una simile delicatezza, e parlare di cancer movie – il “genere” cui appartengono questi film – sarebbe limitato. Babyteeth è un’opera che pone al centro le persone, più che la malattia stessa, e osserva la vicenda della sedicenne Milla (Eliza Scanlen) da una prospettiva non convenzionale. Malata di tumore, la ragazza incontra il ventitreenne Moses (Toby Wallace), uno sballato che vive alla giornata, e se ne innamora quasi all’istante. Il fatto dovrebbe preoccupare i suoi genitori, Henry (Ben Mendelsohn) e Anna (Essie Davis), ma la felicità che leggono negli occhi di Milla li spinge a incoraggiarla: il suo umore è infatti più sereno, al punto da farle desiderare di andare al ballo della scuola. Così, mentre i trattamenti proseguono e Milla continua a studiare violino, l’esistenza della sua famiglia prende svolte inattese: Henry, che fa lo psichiatra, conosce una vicina single e incinta, mentre Anna decide di sospendere i suoi psicofarmaci per non perdersi nulla di ciò che succede alla figlia.

Le loro strade convergono verso un unico punto, ma Shannon Murphy e Rita Kalnejais trovano una chiave fresca e incalzante per raccontare la storia: la malattia resta in secondo piano, le terapie sono relegate fuori campo, e ciò che vediamo è pura, semplice vita. Non è un caso che la sceneggiatura sia così ricca di umorismo (la commedia spesso prevale sul dramma), o che i personaggi di supporto abbiano un carattere buffo e stralunato nelle loro vicende quotidiane. La struttura stessa del racconto non manca di ironia: il film è scandito da numerose didascalie colorate che anticipano ciò che sta per accadere, dando luogo a brevi capitoli che mettono in luce gli sviluppi psicologici ed emotivi della trama. Ben lungi dall’essere pedante, questa formula viaggia veloce come la personalità di Milla, riproducendo la sua irrequietezza e il suo sarcasmo adolescenziale: Babyteeth scorre come le pagine di un diario, altrettanto intimo ed erratico.

Non c’è spazio per i pietismi, né per la spettacolarizzazione del dolore. Murphy preferisce concentrarsi sull’individualità tormentata di Milla, presa nel conflitto tra la vitalità dell’adolescenza e la mortalità della malattia, che innescano un cortocircuito nella sua visione del mondo. Persino il rapporto con la macchina da presa ne viene influenzato: la ragazza rompe la quarta parete, ci guarda e sembra volersi sfogare con noi, divisa tra istinti di ribellione e slanci d’affetto come qualunque teenager. Intanto, l’ansia della madre si contrappone alla pacatezza riflessiva del padre, cui l’ottimo Ben Mendelsohn dona quel misto di stupore e consapevolezza che pizzica corde struggenti (ed è un peccato che Hollywood continui ad affidargli solo ruoli da antagonista, o quasi).

L’epilogo soffre di qualche lungaggine, ma non rovina l’esperienza complessiva del film: un’opera tenera ed eterea, che non racconta la malattia bensì gli individui che ne vengono toccati (direttamente o indirettamente), senza mai perdere il rispetto per i suoi personaggi.