Reduce dal Leone d’Oro per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, Roy Andersson conferma la sua formula prediletta in About Endlessness, altro mosaico di tableu vivant che gettano uno sguardo sornione e disilluso sulle miserie dell’umanità.
Anche stavolta non c’è una trama unitaria, ma ogni singolo quadro – tutte inquadrature fisse in campo totale – racconta una piccola vicenda a se stante, che raramente ha un seguito nei tableau successivi. Ad attraversare il film, però, c’è la tragicomica vicenda di un prete che ha perso la fede, mentre una voce narrante femminile introduce ogni singolo personaggio con le stesse parole: “Ho visto un uomo/una donna che…”. Assistiamo quindi ai lamenti di un signore che invidia un suo vecchio compagno di scuola; a una scenata di gelosia davanti al bancone del pesce; al ritorno di una donna che non si aspetta di essere accolta in stazione; agli ultimi momenti di Adolf Hitler nel bunker; alla deportazione di alcuni prigionieri in un campo di concentramento; alla possibile infatuazione di un ragazzo che non ha mai conosciuto l’amore; a una dolorosa visita dal dentista; a un uomo che sogna di essere crocifisso; e molto altro. Intanto, una coppia fluttua abbracciata sui tetti di una città in rovina, chiaro riferimento al dipinto Sulla città di Marc Chagall.
Andersson, insomma, ripropone la medesima impostazione narrativa dei suoi film precedenti, aggiungendo ulteriori elementi metafisici che rendono il tutto ancora più straniante, ma non privo di una certa vena poetica. Le gabbie che intrappolano i suoi personaggi non sono circoscritte solo dai limiti dell’inquadratura, ma anche da numerose barriere sociali e mentali che soffocano ogni tentativo di rapportarsi con l’altro: non a caso, spesso i tableau di About Endlessness sono caratterizzati da una radicale incomunicabilità, con uomini e donne che restano bloccati in frasi ripetitive senza ottenere alcun effetto sugli interlocutori.
È grottesco, a tratti persino buffo, ma soprattutto desolante. Ogni sequenza, indipendentemente dall’ambientazione interna o esterna, è immersa in un clima grigio che rievoca la luce del nord, e le scenografie austere col green screen contribuiscono a un senso di durezza e squallore. Forse le intuizioni sono meno brillanti rispetto al Piccione, ma Andersson trova sempre la chiave giusta per spiazzare il pubblico con le sue composizioni surreali, e l’esito finale rispecchia il declino di un’umanità chiusa in se stessa, vittima di eventi casuali che non può controllare. Forse l’unico sollievo è in quell’abbraccio volante, che si eleva oltre le pene del mondo e immagina il calore di una simbiosi fra i corpi: negli infiniti affanni della condizione umana, la libertà del sogno è la vera salvezza.