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Seberg, una ricostruzione molto hollywoodiana: la recensione da Venezia 76

Pubblicato il 30 agosto 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Nei tumultuosi rapporti fra l’intelligence americana e il mondo del cinema, la storia di Jean Seberg è certamente una delle più tragiche, soprattutto se consideriamo i suoi legami con le lotte per i diritti civili tra gli anni Sessanta e Settanta. Scoperta da Otto Preminger, l’attrice americana fu resa immortale dalla Nouvelle Vague francese, soprattutto grazie al ruolo di protagonista in Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, che fece di lei una vera e propria leggenda della Settima Arte.

Seberg, il film di Benedict Andrews presentato Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, comincia nel 1969, quando la protagonista è all’apice della carriera: dopo i successi francesi, si prepara a tornare a Hollywood, dove girerà un musical. Il clima negli Stati Uniti è rovente: le Black Panther combattono il razzismo della società americana, le proteste contro la guerra del Vietnam continuano, e molti sperano in un cambiamento generale che risolva gran parte delle ingiustizie sociali. Jean, interpretata da Kristen Stewart, incontra sull’aereo l’attivista Hakim Jamal (Anthony Mackie), che la introduce nella comunità afroamericana di Compton, a Los Angeles: Hakim vuole cambiare “una testa per volta”, e insieme a sua moglie Dorothy (Zazie Beetz) lavora per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle discriminazioni razziali, formando al contempo le nuove generazioni. Oltre a intrattenere una relazione sessuale con lui, Jean decide di finanziarne i programmi, e dona del denaro anche alle Black Panther, attirando così l’attenzione dell’FBI. Jack Solomon (Jack O’Connell) è incaricato di sorvegliarla con il collega Carl Kowalski (Vince Vaughn), ma ben presto entra in empatia con lei. Intanto, però, Jean diventa sempre più paranoica: sa che qualcuno la spia, e il suo stato mentale si deteriora progressivamente.

È sempre utile che Hollywood ricostruisca i suoi conflitti con l’intelligence americana, non solo per rendere giustizia ad artisti perseguitati per i loro ideali, ma anche per mettere in luce il peso del cinema nell’immaginario collettivo: se una star del grande schermo appoggia determinati gruppi di dissidenti, la visibilità di questi ultimi cresce in modo esponenziale, spaventando quelle istituzioni che cercano sempre di addormentare e sottomettere la coscienza sociale dei cittadini. Jean Seberg, in tal senso, è un modello di impegno e coinvolgimento attivo, stroncata troppo presto da una condizione psicologica che fu indubbiamente favorita dalla strettissima sorveglianza dell’FBI. Il problema del film, però, risiede proprio nella sua origine hollywoodiana: gli sceneggiatori Joe Shrapnel e Anna Waterhouse (gli stessi di Race e del nuovo Rebecca) adottano infatti una serie di espedienti artificiosi per garantire la varietà e la “vendibilità” della trama, romanzando la vicenda secondo i canoni del cinema più commerciale.

Il personaggio di Jack Solomon è il più emblematico, da questo punto di vista. Utile a introdurre la prospettiva dell’FBI, Solomon è una pallidissima imitazione del Gerd Wiesler de Le vite degli altri, e infatti si affeziona al suo obiettivo mentre ne spia le mosse (spesso limitandosi ad ascoltare, proprio come Wiesler). La soluzione è troppo manierata e artefatta per convincere, soprattutto nella ricostruzione di una storia vera. Seberg diventa così un melodramma con sfumature di spionaggio, eccessivamente stereotipato nel modo in cui rappresenta la discesa di Jean negli abissi della paranoia, e incapace di trovare un equilibrio fra le necessità drammaturgiche e quelle storiche. Peccato, perché la vicenda è tragicamente significativa nelle sue numerose ramificazioni, e la performance misurata di Kristen Stewart evita quantomeno gli eccessi parossistici. Quello che manca, però, è una scrittura adeguata.