Persino un divorzio può farsi rappresentativo di un’intera generazione, e i quarant’anni intercorsi tra Kramer contro Kramer e Marriage Story non sono certo ininfluenti. D’altra parte, Noah Baumbach ha già dimostrato di saper narrare con arguzia le incertezze dei trentenni odierni, divisi fra le scorie dell’eterna adolescenza e le responsabilità della vita adulta: raccontare la storia di un divorzio, insomma, significa indagare la realtà magmatica dei rapporti coniugali, adottando entrambe le prospettive per restituirne la piena complessità. Il cineasta newyorkese ha però un tocco molto personale, e anche in questo caso lascia trasparire una delicatezza che oscilla fra speranza e disillusione, dove l’ironia brillante sa essere più salvifica che amara.
L’incipit è memorabile: Charlie (Adam Driver) e Nicole (Scarlett Johansson) descrivono i rispettivi pregi mentre uno spassoso montaggio ci mostra vari momenti della loro vita insieme, la convivenza, le affinità di coppia, i giochi con il figlio Henry e tutto ciò che rende verosimile un ritratto di famiglia. Lui è un regista teatrale off-Broadway, lei un’attrice con trascorsi cinematografici, e sembrano incredibilmente affiatati… ma purtroppo stanno per divorziare, e Nicole lascia New York con il bambino per trasferirsi dalla sua famiglia a Los Angeles, dove girerà il pilot di una serie tv. I rapporti fra lei e Charlie sono ancora buoni, ma la situazione si complica non appena entrano in campo gli avvocati, e le loro esistenze vengono rimesse in discussione.
Ciò che salta subito all’occhio è la qualità cristallina della sceneggiatura, opera dello stesso Baumbach, che la popola di dialoghi scoppiettanti e situazioni paradossali, dipanando progressivamente le ragioni della separazione. Se è vero che i due protagonisti vivono gran parte delle loro vite sul palcoscenico, anche il film è gestito da Baumbach come un’opera teatrale: a parte alcune eccezioni, Marriage Story è un susseguirsi di impeccabili sequenze dialogate che si svolgono in stanze chiuse, giocando sulla prossemica e sul rapporto tra i corpi nello spazio. Le stesse scene “madri” hanno una forza espressiva viscerale che ricorda le improvvisazioni teatrali, anche perché la bravura di Driver e Johansson rende “materico” persino lo scambio più banale. Lo sguardo del regista ne valorizza ogni singola espressione facciale, ogni singola lacrima o piega delle labbra, creando una simbiosi insperata fra gli attori e la macchina da presa.
La graduale discesa verso la crisi è innescata dalla presenza degli avvocati (una scintillante Laura Dern e un arcigno Ray Liotta), che rappresentano la voce spietata del pragmatismo fra due persone di tutt’altra pasta: Charlie e Nicole non vogliono farsi la guerra, ma vengono trascinati dalle circostanze in un gioco al massacro che non giova a nessuno dei due. Baumbach è bravo a mettere in scena un realtà dove il “sistema”, pur essendo creato con le migliori intenzioni, incapsula i protagonisti in vicoli ciechi e paradossi legali, mentre la buona volontà della coppia si smarrisce in un conflitto sempre più esasperato. Eppure, i due ex amanti hanno lasciato una traccia fondamentale l’uno nell’altra, ed è proprio nei momenti di maggiore squilibrio che essa riaffiora: basta un lampo di dolce quotidianità – come quelli che Baumbach è sempre stato bravo a cogliere – e l’intesa riemerge in modo quasi inconsapevole.
Anche per simili finezze, e per il potentissimo monologo di Laura Dern sul ruolo della donna/madre/santa, Marriage Story è un film da non perdere.