Si dice spesso che i cineasti giapponesi perdano smalto quando lavorano fuori dai confini nazionali, ma evidentemente Hirokazu Kore’eda sfugge persino agli stereotipi più nefasti. La vérité, scelto a sorpresa per aprire la 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un film alquanto diverso dalle sue opere in terra nipponica, eppure mantiene quell’assoluto controllo sui sentimenti, sui rapporti interpersonali e sulla messa in scena che caratterizza tutti i lavori del regista di Tokyo, pur traslandolo in un contesto interamente nuovo.
Cambia anzitutto l’ambientazione geografica (la Francia al posto del Giappone), ma la dimensione sociale è forse la novità più spiazzante per chi conosce il cinema di Kore’eda, solitamente lontano dal bagliore di contesti “eccezionali”. Tuttavia, la sua abitudine a indagare la quotidianità dei legami affettivi – per quanto tumultuosa possa essere – trova un terreno fertile persino qui, dove i personaggi vivono nella bolla irreale della Settima Arte. Catherine Deneuve interpreta un doppio di se stessa, l’attrice Fabienne, diva del cinema francese che ha appena pubblicato un libro sulla sua vita. Per l’occasione, a Parigi torna sua figlia Lumir (Juliette Binoche), sceneggiatrice che vive da anni a New York, accompagnata dal marito attore Hank (Ethan Hawke) e dalla figlia Charlotte (Clémentine Grenier). Le menzogne raccontate nel libro, versione romantica ed edulcorata della vita di Fabienne, suscitano il rancore di Lumir, che si ricorda fin troppo bene gli errori di una madre assente e troppo concentrata su se stessa. Intanto, Fabienne deve girare un film di fantascienza nel quale interpreta la figlia di una donna che non invecchia, e che quindi è molto più giovane di lei: tra finzione e realtà, trapelano emozioni che potrebbero influenzare entrambe.
Il contesto francese si adatta perfettamente alla sobrietà registica di Kore’eda, il cui film potrebbe tranquillamente appartenere alla prestigiosa tradizione cinematografica transalpina. Ciò non significa, però, che l’autore giapponese perda per strada i suoi tratti peculiari. È ancora una volta una famiglia, con i suoi rapporti sussurrati, ad assorbire il nucleo del racconto, orbitando attorno al carisma della sua primadonna: Fabienne è infatti una diva di spessore autoriale, nostalgica della poesia che un tempo ammantava il cinema, sottilmente caustica e orgogliosamente egotista. Dal suo punto di vista, le emozioni sono solo un mezzo per ottenere una buona performance, e il perdono del pubblico è più importante di quello di sua figlia. Ciò che ne deriva è un rapporto elettrico e conflittuale tra due donne molto diverse, forse non così sorprendente nelle sue dinamiche psicologiche (in parte già viste) ma ben articolato nei suoi rimandi tra arte e vita. D’altra parte, Fabienne si sente “finita” perché interpreta un ruolo troppo umiliante per il suo ego, all’ombra di una giovane attrice considerata l’erede di una sua vecchia amica/rivale, che fu per Lumir una madre migliore di lei; è quindi inevitabile che i due quadri – il grande schermo e il ritratto familiare – si confondano fino a riversarsi l’uno nell’altro, sempre con la grazia e l’ironia delle mezze parole. I commentini sarcastici di Fabienne sono stilettate narcisistiche che fanno di lei un personaggio più che una persona, favorendo così la sopracitata confusione tra le due dimensioni.
La padronanza della narrazione, però, resta sempre ben salda nelle mani di Kore’eda, senza sfociare in situazioni caotiche o eccessi melodrammatici. Esiste uno spazio per la finzione (che è quello del lavoro: il set cinematografico) e uno spazio per la realtà (che è quello della famiglia: la casa di Fabienne), e la precisa alternanza fra di essi cadenza la progressione del film, toccando il giusto vertice in entrambi. La chiave, in fondo, è già nel titolo: La vérité, che è anche il titolo della biografia di Fabienne. Ma la verità è sfuggente, inconoscibile, soprattutto per una donna abituata a interpretare personaggi fittizi sul grande schermo. «La verità non appassiona» dichiara la diva, e ha ragione: il cinema – anche quando si fregia di uno smaccato “verismo” – deve sempre costruire una propria realtà, volta a suscitare determinati effetti nel pubblico. Fabienne abbraccia completamente questa idea, e persino Lumir, con la sua supposta superiorità morale, usa le armi dello storytelling per manipolare il prossimo.
Ognuno filtra la verità secondo le proprie esigenze, ma Kore’eda è un lucido realista: una famiglia deve restare unita non a dispetto delle sue menzogne, ma in virtù di esse. Chissà, forse la chiave per l’armonia è proprio quella.