Quanto impariamo dal passato? Il discorso può sembrare vetusto e retorico, ma il cinema deve ricordarci che l’eterno ritorno della Storia è una responsabilità soltanto nostra, e gli orrori tendono a reiterarsi in epoche diverse, come un’eco. La vicenda di Alfred Dreyfus è particolarmente significativo in tal senso, non solo per i rigurgiti di antisemitismo che tuttora esistono, ma anche perché la prospettiva si potrebbe estendere a qualunque etnia o credo religioso, soprattutto in tempi di politici xenofobi e governi sovranisti. Con queste premesse, l’interesse di Roman Polanski per il celebre affair è chiaramente “catartico”, poiché il regista polacco vede in Dreyfus il riflesso di se stesso: un uomo perseguitato ingiustamente, oggetto di disprezzo da parte di un’opinione pubblica che – per citare le sue parole – “non sa niente del caso”.
Al di là che si condivida o meno tale autorappresentazione, J’accuse articola un gioco di rimandi fra passato e presente che lascia emergere le radici dell’odio, peraltro senza mai scadere nel didascalismo. L’incipit è esemplare: Polanski ci proietta subito in medias res, mostrandoci l’umiliante degradazione pubblica del Capitano Dreyfus (Louis Garrel) nel gennaio 1895, dopo la condanna a vita per tradimento e connivenza con la Germania. La Francia era ancora scossa dalla perdita dell’Alsazia e della Lorena in favore dell’impero tedesco, e un uomo come Dreyfus – di origini ebree, quindi vittima di ulteriori discriminazioni – era il capro espiatorio ideale, soprattutto dopo che la sua grafia fu ritenuta somigliante a quella del cosiddetto bordereau, lettera anonima in cui un misterioso traditore si proponeva di vendere ai tedeschi alcuni documenti segreti. Polanski inquadra la scena in campo lungo, poi in campo totale, senza stringere mai eccessivamente sull’azione: sembra quasi trasmetterci la sua intenzione di narrare la storia da una prospettiva esterna. Dreyfus è infatti un comprimario, non il protagonista, e la trama ruota attorno a Georges Picquart (Jean Dujardin), appena eletto ai vertici dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore. Mentre Dreyfus si trova in esilio sull’Isola del Diavolo, Picquart scopre le prove della sua innocenza, ma deve scontrarsi con l’ottusità delle alte cariche militari prima di poter riaprire il caso.
Oltre che un film storico, J’accuse è in effetti una spy story di grande eleganza, dove l’investigazione ha un ruolo centrale. La sceneggiatura di Roman Polanski e Robert Harris (autore del libro da cui è tratta) non edulcora l’antisemitismo di Picquard, ma pone in evidenza il suo impegno nei confronti della verità: l’onore e la giustizia soverchiano i pregiudizi, e il copione ha una forza centripeta che risucchia progressivamente verso l’interno, stimolando una partecipazione sempre maggiore alla battaglia dell’ufficiale. La chiarezza espositiva del racconto è valorizzata da una messa in scena rigorosa, che predilige gli spazi chiusi per costringere i personaggi in ambienti oppressivi e poco illuminati, dove si svolgono scontri verbali trattenuti ma pieni di conflitto; come se i personaggi fossero perennemente impegnati a contenere le proprie reazioni per rispettare l’etichetta. È paradossalmente negli spazi pubblici – come l’aula del tribunale – che esplodono la rabbia e l’indignazione, spettacoli a uso e consumo del popolo.
Polanski prende quindi l’affair Dreyfus per farne un emblema dei corsi e ricorsi storici, rendendolo un ammonimento per il futuro: eventi simili si sono già ripetuti, e potrebbero ripetersi ancora. Anche la lapidaria didascalia finale evidenzia la scrupolosità dell’operazione, che non cerca sentimentalismi o scappatoie illusorie, ma si sforza di restare fedele ai fatti storici. Ne risulta un’opera ben più che “didattica”, potente e minuziosa, che ci mette in guardia dall’eterno ritorno della Storia.