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Ad Astra, l’umanità come ultima frontiera: la recensione da Venezia 76

Pubblicato il 29 agosto 2019 di Lorenzo Pedrazzi

È curioso che James Gray abbia scelto proprio Ad Astra come titolo del suo primo film di fantascienza, affidandosi alla celebre frase latina “Per aspera ad astra” (“Attraverso le asperità, fino alle stelle”). Curioso, perché in realtà le stelle c’entrano ben poco, se non come “ideale” che spinge l’umanità a compiere sforzi titanici per superare i propri limiti: l’avventura concepita dal regista newyorkese e dal co-sceneggiatore Ethan Gross resta infatti confinata entro i limiti del nostro sistema solare, peraltro già abbondantemente misterioso e inviolato se ci riferiamo all’esplorazione umana. La scelta non è casuale, e la tagline utilizzata nella campagna marketing – “Le risposte che cerchiamo sono al di là della nostra portata” – riassume bene la visione cosmica di questa affascinante space opera.

Gray non specifica l’anno in cui si svolge la storia, ma siamo in un futuro abbastanza vicino da apparire ancora riconoscibile, per quanto la colonizzazione terrestre si sia ormai spinta ben oltre il pianeta Marte. Una serie di tempeste elettromagnetiche provenienti dallo spazio provoca gravissimi incidenti sulla Terra, e persino l’astronauta Roy McBride (Brad Pitt) rischia la vita mentre lavora negli strati superiori dell’atmosfera. Convocato dai vertici della Spacecom, l’agenzia spaziale americana, Roy scopre che le tempeste sono causate dal Progetto Lima, una missione partita circa trent’anni prima alla volta di Nettuno per cercare tracce di vita extraterrestre. Il capo era suo padre, il leggendario H. Clifford McBride (Tommy Lee Jones), che pare sia ancora vivo: sarebbero proprio i suoi esperimenti con l’antimateria a mettere in pericolo il sistema solare. Roy deve quindi partire per contattarlo e porre fine alla minaccia, ma il lungo itinerario verso l’esterno del sistema solare è ricco d’insidie.

Con queste premesse, l’approccio di James Gray alla fantascienza spaziale è chiaramente intimista, e la narrazione extradiegetica di Roy lo dimostra fin dall’inizio: Ad Astra è un viaggio tanto esteriore quanto interiore, nel cuore e nella mente di un uomo che predilige la solitudine ai rapporti sociali, e viene lasciato dalla moglie proprio per questa sua attitudine mentale. Prototipo dell’astronauta (e soldato) perfetto, Roy non perde mai la calma, tiene sotto controllo i battito cardiaco e supera in scioltezza tutti i test psicologici, algidamente condotti da una voce elettronica priva di vita; insomma, è il prodotto definitivo di quella disumanizzazione che le istituzioni militari vogliono imporre ai loro paladini, in modo da renderli efficienti come macchine. Il suo cammino è quindi una progressiva ribellione al giogo del padrone, innescata dal ricordo di un padre che ha trascurato moglie e figlio per dedicarsi alla sua chimera scientifica. Lo spettro del genitore accompagna il protagonista per tutto il viaggio, è un radiofaro da seguire per raggiungere la meta: l’intero film non è altro che un dialogo silenzioso tra padre e figlio, separati da miliardi di chilometri ma legati dalla fedeltà alla propria missione, seppure con fini opposti.

Ad Astra s’inserisce così in un retaggio cinematografico molto preciso, che parte da Ikarie XB-1 e arriva fino a High Life, passando per 2001: Odissea nello spazio, Solaris e Interstellar, giusto per citare i più noti. Le inquadrature spaziali rispondono alle medesime ambizioni contemplative, e ipnotizzano con la loro armoniosa eleganza, salvo poi esplodere nell’ottima sequenza d’azione sulla Luna che ci mostra un’inedita zona di guerra. Il copione di Gray e Gross tende effettivamente a scandire il racconto intimista con saltuarie scene d’azione, che talvolta appaiono gratuite – una in particolare – e possono risultare un po’ stranianti rispetto al contesto. Eppure, trovano una giustificazione nelle risposte emotive di Roy, che ne ricava varie riflessioni introspettive per svelare gradualmente la verità del suo personaggio (in modo talvolta un po’ troppo meccanico, a dire il vero).

Al di là di questi dettagli, però, l’elemento più interessante di Ad Astra risiede nella sua alterità rispetto ai principali esponenti del genere. Se film come 2001, Solaris e Interstellar – ognuno a modo proprio – lanciano i rispettivi eroi oltre l’infinito in territori “metafisici”, James Gray fa il percorso opposto e ritorna alla concretezza della realtà fattuale, senza illusioni sovrasensibili. Di fatto, Ad Astra è una peregrinazione cosmica alla ricerca dell’umanità perduta, dove recuperare i valori dell’empatia, della solidarietà e dell’amore per il prossimo: ovvero, tutto ciò che viene cancellato nella creazione dell’uomo-macchina. Non ha senso cercare vita extraterrestre, se al contempo ignoriamo quella che ci circonda. Mentre ripercorre le tappe dell’esplorazione spaziale passata e futura, il film di James Gray riporta il dato umano al centro del discorso.