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Midsommar, il vero orrore sono i rapporti affettivi: la recensione del film di Ari Aster

Pubblicato il 22 luglio 2019 di Lorenzo Pedrazzi

La poetica di un cineasta si riconosce anche dalle sue ossessioni, che lo seguono passo dopo passo mentre costruisce la sua filmografia. Nel caso di Ari Aster, bastavano i cortometraggi per individuare la reiterazione di alcune tematiche predilette, poi esplose tra le pareti domestiche di Hereditary fino al crollo della famiglia tradizionale. In un certo senso, Midsommar riparte proprio da qui: l’istituzione familiare coltiva i semi della sua stessa rovina, e una giovane studentessa di psicologia chiamata Dani (Florence Pugh) subisce un trauma violentissimo che mina la sua fragile stabilità emotiva. Anche qui, insomma, un amore deviato genera mostri perturbanti, ma stavolta il regista newyorkese adotta questo concetto come punto di partenza, non d’arrivo.

C’è effettivamente una netta contrapposizione, in Midsommar, tra la cupezza del prologo e il resto del film. L’incipit americano si giova di atmosfere notturne che alimentano un clima ansiogeno, lo stesso in cui vive la protagonista, mentre i paesaggi svedesi sono immersi nella luce abbacinante dell’estate, quando il sole cala soltanto per un paio d’ore. È qui che Dani si reca con il fidanzato Christian (Jack Reynor) e i suoi amici, studenti di antropologia che vogliono scrivere la tesi sulle celebrazioni per il solstizio d’estate in un villaggio rurale. L’eredità di The Wicker Man è evidente fin dall’albero della cuccagna che domina l’insediamento, ma Aster ha un modo tutto suo di rileggere la tradizione del folk horror, un po’ come aveva fatto in Hereditary con il sottogenere delle possessioni e delle case infestate. Questo perché Midsommar, di fondo, è un break-up movie mascherato da horror: narra la rottura di un rapporto romantico ormai logoro, dove la componente maschile si rivela inadeguata e meschina. Per lui, l’horror è quindi il mezzo, più che il fine di una storia; e il cinema è il suo personalissimo strumento di autoanalisi, con cui rielabora il privato sotto forma di opera creativa, in “metafora”.

Anche per questo motivo, Aster si diverte ad alterare la percezione della realtà, soggetta all’umore della protagonista: le apparizioni repentine di un passato violento sono gli spettri inconsci che avvelenano la psiche di Dani, frutto di un trauma non ancora elaborato e forse impossibile da superare appieno. È proprio la purezza del suo dolore a renderla diversa dagli altri turisti, emblemi dell’americano medio che guarda al folclore straniero con indulgenza e paternalismo. Privata degli affetti, Dani ha bisogno di una famiglia alternativa che la accolga e si prenda carico della sua sofferenza, spartendola equamente come se fosse una propria responsabilità. Non a caso, la società di Midsommar poggia su due idee basilari: ciclicità e comunione. Da un lato c’è la visione circolare dell’esistenza, dove ogni ciclo vitale è in armonia con la natura, che pretende un tributo in cambio delle sue offerte; e dall’altro c’è la spartizione dei beni, dei sentimenti e degli stati emozionali, che diventano condivisi. Ogni passaggio cruciale per l’equilibrio del villaggio – come il concepimento di un figlio – diviene un rito di compartecipazione, in cui tutti sono chiamati a imitare l’impegno, la fatica e le reazioni di chi lo vive in prima persona. Analogamente, Dani può alleggerire il peso del suo enorme dolore, che viene distribuito fra le donne del posto in un liberatorio pianto collettivo.

In tale contesto, lo sviluppo dell’orrore segue i ritmi dilatati dello slow burn, giovandosi anche di una durata piuttosto lunga (quasi due ore e mezza). Aster conferma il suo gusto per un raccapricciante di fattura artigianale, derivato in gran parte dal new horror degli anni Settanta, e ha il merito di limare certe asperità dei suoi lavori precedenti: gli eccessi melodrammatici si concentrano sui riti pagani – e quindi sono giustificati – mentre i virtuosismi formali sono meno gratuiti che in Hereditary (a parte qualche rara eccezione, come l’inquadratura rovesciata della strada che porta al villaggio). Piaccia o meno, Aster dimostra di voler “fare cinema” più di molti altri colleghi americani contemporanei, sforzandosi di allestire composizioni eleganti e scrupolose, dove la disposizione dei corpi nello spazio – anche sulle superfici riflettenti – non è casuale. Al contempo, ci ricorda che i veri orrori spesso avvengono alla luce del giorno, proponendoci un incubo diurno a toni pastello, ricco di naturalezza e apparente candore.

Così, abbagliati dal sole perenne e dai colori che lo riflettono, veniamo trascinati in un racconto allucinato e febbricitante, uscendone tanto stremati quanto appagati. L’impressione è di aver assistito a una seduta di psicoterapia del regista, disposto ad aprire uno spiraglio sul suo subconscio grazie a quell’acuto strumento indagatore che è il cinema: un mezzo spietato, in particolare quando vira all’horror, perché denuda la terrificante realtà dei rapporti affettivi e delle tempeste interiori. Se già Hereditary e i cortometraggi avevano evidenziato la poetica del giovane cineasta, Midsommar non fa che consolidarla.

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