Avete presente l’indimenticabile Bill Paxton di Aliens? Il suo «Vengono fuori dalle fottute pareti!» è entrato nella leggenda, al punto da essere citato ogni volta che qualcosa – solitamente mostri o insetti – fuoriesce dalle pareti, che siano fottute o meno. Ecco, Crawl è proprio così, ma con la differenza che gli alligatori fuoriescono dai canali di scolo, oppure affiorano sulla superficie dell’acqua. Quel grande intrattenitore di Sam Raimi e il regista Alexandre Aja, mestierante grezzo ma capace, confezionano un survival horror che attinge a varie fonti della suspense, amalgamandole tra loro per ottenere un film assurdo e godibile, purché si abbassino le pretese.
La combo “uragano + alligatori” potrebbe far pensare a Sharknado, ma Aja (strano a dirsi) non è così trash, e anzi sembra guardare al cinema catastrofico hollywoodiano degli anni Novanta, Twister in primis, dove le condizioni atmosferiche servivano ad allestire un clima da tragedia imminente. Il soggetto, però, ricorda vagamente quello di Bait 3D: lì erano gli squali a invadere gli spazi della quotidianità umana, perseguitando gli sventurati protagonisti dopo una grave inondazione. La differenza risiede nel bersaglio psico-emotivo che Crawl tenta di centrare fin dalle prime battute, quando vediamo la giovane nuotatrice Haley Keller (Kaya Scodelario) gareggiare in piscina con altre atlete, e le immagini si alternano ai flashback della piccola Haley con il padre Dave (Barry Pepper), suo allenatore da bambina. Insomma, la sceneggiatura dei fratelli Rasmussen cerca di stabilire subito un legame tra il pubblico e i personaggi, mettendo in scena una famiglia disgregata e un rapporto padre-figlia di natura conflittuale, dovuto alle loro similitudini caratteriali. Mentre un tornado si appresta a colpire la Florida, Haley va dal padre per assicurarsi che stia bene, ma resta intrappolata con lui nel seminterrato di casa: il livello dell’acqua continua ad alzarsi, ed enormi alligatori ne approfittano per dar loro la caccia.
Il titolo del film è passibile di una doppia lettura, che in effetti ne delinea i tratti ricorrenti: crawlspace è un tipo di seminterrato in cui non si può stare in piedi (come quello in cui si svolge gran parte della storia), ma to crawl significa anche “strisciare”, movimento tipico di tutti i Crocodylia. Con queste premesse, Aja ha modo di costruire un creature feature più raffinato del suo Piranha 3D o dello stesso Bait, poiché sfrutta con intelligenza i limiti spaziali dell’ambientazione: Haley e suo padre possono soltanto strisciare, accovacciarsi o al limite nuotare, ponendosi così allo stesso livello degli alligatori. Più che il senso di claustrofobia, questa impostazione favorisce l’incisività dei jump scare, sul modello dei survival horror videoludici: diluiti lungo il cammino dei protagonisti, i “salti sulla sedia” colpiscono all’improvviso, come cazzotti rifilati a tradimento.
A tal proposito, Aja gioca sulla violenza ferina degli alligatori come se stesse dirigendo un film di Alien, nascondendoli nell’ombra e rendendoli ancora più aggressivi di quanto già non siano. Il luna park di orrori e spaventi che ne risulta è piuttosto divertente, ma richiede di sospendere l’incredulità con sempre maggior frequenza, alzando continuamente l’asticella del possibile. Se i comprimari sono carne da macello, Haley e Dave sembrano imbattibili, e non cedono nemmeno davanti alle ferite più gravi. Il coinvolgimento e il climax ne risentono, anche perché la banalità dei contrasti psicologici ostacola l’empatia, e non è facile simpatizzare con questi personaggi (nonostante il copione punti molto sul parallelismo tra la minaccia esterna e le loro vicende familiari). Resta comunque un intrattenimento svelto e godibile, dove la regia – soprattutto nelle scene del seminterrato – è più raffinata di quanto ci si potrebbe aspettare.
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