Nel 2000 avevo 16 anni, leggevo i fumetti Marvel (soprattutto L’Uomo Ragno) e guardavo molti film. I supereroi erano entrati in casa mia tramite gli adattamenti cinematografici e televisivi, molti dei quali rimandavano però all’universo della DC Comics, che dominava il mercato sul grande schermo: le saghe di Superman e Batman erano di un altro pianeta rispetto agli scalcinati tentativi della Marvel, prigioniera di b-movie destinati all’home video (il Capitan America del 1990) o all’oblio (I Fantastici Quattro del 1994, prodotto da Roger Corman). Come molti altri lettori, immaginavo trasposizioni cinematografiche ben più dignitose per la Casa delle Idee, e il primo indizio di questo nuovo “corso” fu il Blade del 1998: non ancora un blockbuster supereroistico, ma un adattamento valido e professionale di un noto eroe Marvel, seppur appartenente al versante horror dell’editore americano.
Quando la 20th Century Fox annunciò X-Men, però, ebbi davvero l’impressione che stesse per aprirsi una nuova era. Affidato a un giovane regista di grido come Bryan Singer, il film poteva contare su una produzione massiccia e su una visione ben precisa, per quanto discutibile sotto alcuni aspetti: Singer razionalizzò l’universo dei mutanti con un approccio terreno (niente maschere o costumi variopinti, niente parossismi fisici), immaginando gli X-Men nel mondo “reale” per rispecchiarne i conflitti etnico-sociali, in forma di metafora. I mutanti ne uscirono depotenziati e banalizzati, ma senza dubbio il film riuscì ad avvicinare il grande pubblico ai supereroi Marvel, costruendo un’atmosfera notevole – soprattutto nella prima parte – e lanciando vari attori nell’empireo di Hollywood.
Nonostante le sue pecche, insomma, X-Men merita di essere celebrato per il suo ruolo seminale nell’attuale panorama dei cinecomic, anche se furono gli Spider-Man di Sam Raimi a portare il discorso su un livello superiore. L’uscita di Dark Phoenix ha quindi un certo peso, se consideriamo tali premesse. Il debutto registico di Simon Kinberg – sceneggiatore degli ultimi capitoli – chiude un’epoca durata quasi vent’anni, in cui gli X-Men sono cambiati, hanno stravolto la loro timeline e si sono dovuti confrontare con l’emergente Marvel Cinematic Universe, destinato ad assorbirli dopo l’accordo tra Fox e Disney. Certo, il vero epilogo di questo franchise sarà New Mutants, ma si tratta di un episodio collaterale che avrebbe dovuto far partire un’altra trilogia, mentre Dark Phoenix appartiene alla saga principale: questa versione degli X-Men finisce qui, e purtroppo non lascia un buon ricordo di sé.
La storia di Fenice Nera era stata già trasposta da Kinberg nel criticatissimo X-Men: Conflitto finale, ma il neo-regista ha voluto fare un altro tentativo sulla base dell’attuale franchise, con il suo ricchissimo cast e l’ambientazione storica: dopo gli anni ’60 di First Class, i ’70 di Days of Future Past e gli ’80 di Apocalypse, Dark Phoenix ci porta negli anni ’90, epoca fondamentale per l’iconografia degli X-Men grazie ai fumetti di Jim Lee alla celebre serie animata. Kinberg, però, preferisce legittimamente seguire la sua strada (tant’è che le uniformi sono ispirate ai successivi New X-Men di Grant Morrison), ma non fa neanche uno sforzo per la ricostruzione storico-ambientale, al contrario dei capitoli precedenti. L’impressione è che si sia scontrato con una produzione dal fiato cortissimo, e con un clima generale da “ultimo giorno di scuola” che rende il film grossolano e affrettato.
La colpa non è certo degli attori, che anzi onorano l’impegno e offrono validissime performance, soprattutto James McAvoy (Charles Xavier) e Michael Fassbender (Magneto), cui si aggiunge un’efficace Sophie Turner nel ruolo di Jean Grey. Il problema è che Kinberg – i cui limiti come sceneggiatore sono evidenti – cerca di avvicinarsi al fumetto senza evocarne la vasta “mitologia”, e ripropone le origini cosmiche di Fenice senza un’adeguata preparazione. Jean viene travolta da una misteriosa energia durante una missione nello spazio, e questo potere distrugge gli argini psichici che Xavier aveva edificato nella sua mente per proteggerla da un trauma. All’inizio della storia, gli X-Men non sono più un gruppo di emarginati che devono nascondersi, ma il loro contributo per il bene comune è stato riconosciuto dal governo americano: ora la squadra è amata dall’opinione pubblica, mentre Xavier ha una linea diretta con il Presidente. Purtroppo, però, la mente di Jean cede alle lusinghe di questo nuovo potere, e semina l’inferno tra gli stessi X-Men mentre cerca la verità sul suo passato, coinvolgendo anche Magneto e la sua “confraternita” di Genosha.
Il Club Infernale, Lilandra e gli Shi’ar sono sostituiti da un gruppo di generici alieni mutaforma comandati da Jessica Chastain, che ha l’aria di non sapere bene come sia finita lì in mezzo, ma fa il suo dovere. Purtroppo, la durata di 114 minuti rende Dark Phoenix troppo contratto, e ben lontano dall’epicità che ci si aspetterebbe in questo caso: gli alieni hanno una vaga attinenza col fumetto (provengono infatti dalla stella D’Bari, nella galassia Shi’ar), ma la sceneggiatura li introduce senza alcun retroscena, e lo stesso discorso vale per l’energia cosmica di Fenice. È tutto molto approssimativo e stucchevole, in particolare quando Kinberg cerca di stabilire un contatto empatico tra i personaggi e il pubblico (fallendo). Il copione si affida alla solita retorica sentimentale, tentando di costruire un dramma basato sui personaggi con dialoghi stereotipati e situazioni già viste, ma riesce nel suo intento solo quando delinea lo spossato disincanto di Magneto verso Xavier. Per il resto, c’è poco da dire: i mutanti secondari continuano a essere delle comparse intercambiabili (Selene e Red Lotus sono completamente anonimi), e anche i co-protagonisti appaiono sprecati, soprattutto Tempesta. Quantomeno l’azione è dinamica e godibile, ma i pochi set sono improntati al risparmio, e non reggono il confronto con le ambizioni epocali del film.
Si chiude così un ventennio di X-Men targati Fox, studio che si è dimostrato più abile nel gestire l’individualità dei singoli film (Logan e i due Deadpool su tutti) rispetto alla visione d’insieme dell’universo narrativo, disastrato e incoerente. L’insofferenza verso l’iconografia dei fumetti ha gravato moltissimo sulle avventure dei mutanti, e si riverbera anche in Dark Phoenix, il cui registro visivo è troppo freddo e anonimo per coinvolgere davvero. Di fatto, il tramonto di questo franchise è anche la fine di un’era: quella dei cinecomic erratici, indipendenti da una più vasta dimensione condivisa. Certo, restano ancora i film della Sony, ma sono francamente marginali rispetto alla grandeur del Marvel Cinematic Universe, dove i mutanti debutteranno in futuro. In ogni caso la Fox ha contribuito enormemente al successo dei cinecomic, aiutando a plasmare – nel bene o nel male – l’attuale panorama dei blockbuster. Proprio per questo, la saga degli X-Men avrebbe meritato un epilogo più monumentale, sia in termini produttivi sia sul piano emotivo. Peccato.
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