Nella prima metà del 1800 Joseph Nicéphore Niépce cattura su un foglio di stagno ricoperto di bitume il panorama visto da una finestra della sua casa laboratorio. Si tratta della più antica fotografia esistente, conosciuta come “Vista dalla finestra a Le Gras”.
Quell’immagine, che a un occhio contemporaneo risulta quasi incomprensibile, rappresenta l’inizio di tutto quello che oggi è la fotografia. Un primo passo che si è rivelato fondamentale anche per la nascita del cinema. Perché senza l’intuizione di Joseph Nicéphore Niépce, oggi non esisterebbero le immagini in movimento, ottenute da una rapida successione di una serie di fotografie.
Tutto è iniziato con una fotografia, quindi. E questa cosa il cinema di certo non l’ha dimenticata. Ci sono molti film, infatti, che ruotano attorno ad uno scatto, ad un macchina fotografica.
Storie all’insegna del mistero e dell’orrore in alcuni casi. Ed è proprio di queste che vogliamo parlare oggi.
In Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni, una fotografia nasconde l’apparente chiave di un delitto. Un mistero che il protagonista del film, interpretato da David Hemmings, cerca di risolvere fino ad un enigmatico epilogo.
Enigmatico perché lasciato all’interpretazione dello spettatore, anche se il messaggio sembra abbastanza chiaro: il confine tra realtà e illusione, a volte, è molto sottile, soprattuto se filtrato attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica.
E se ci pensiamo anche le indagini di Rick Deckard, il protagonista di Blade Runner di Ridley Scott, iniziano dal ritrovamento di una fotografia, anche in questo caso scandagliata in ogni suo millimetro in cerca di indizi, in questo caso piuttosto chiari.
Ma, come abbiamo già detto, a noi interessa il lato più oscuro delle fotografie. Quello in grado di regalare brividi. Quello legato alla morte.
Ed qui che intervengono due titoli come Quattro mosche di velluto grigio (1971) di Dario Argento e Imago Mortis (2008) di Stefano Bessoni, che ruotano attorno ad un presupposto tanto affascinante quanto assurdo: la possibilità che sulla retina di una persona morta (specie se assassinata) si stampi l’ultima immagine vista. Come in una fotografia.
La Fotografia Spiritica è una pratica nata subito dopo la nascita della fotografia.
Sfrutta le superstizioni e il fatto che i nostri occhi vedono ciò che vogliono vedere, specie in casi di profonda disperazione.
Come suggerisce il nome, lo scopo – o presunto tale – è immortalare la presenza di un’entità spiritica in uno scatto fotografico.
È per certi versi quello che succede agli sfortunati protagonisti di The Ring (2002), il remake dell’horror di Hideo Nakata diretto da Gore Verbinski. Una volta vista la videocassetta maledetta e ricevuto la telefonata dell’inquietante Samara, è meglio lasciar perdere le fotografie, perché non fanno altro che evidenziare una maledizione a orologeria di cui siamo diventati vittime.
E di Fotografia Spiritica parla nello specifico Shutter (2004), pellicola thailandese diretta da Banjong Pisanthanakun. Al centro del film, alcune fotografie che sembrano aver immortalato qualcosa di completamente estraneo alla nostra dimensione. Nello specifico uno spirito in cerca di vendetta.
Una storia affascinante, a cui è stato dedicato anche un remake americano, Ombre dal passato (2008), diretto da Masayuki Ochiai.
In alcuni paesi del mondo le credenze popolari sono ancora fortemente radicate. Alcune superstizioni riguardano proprio la fotografia.
Esistono culture che vedono nascosta dietro una macchina fotografica una forma di stregoneria. Si tratta del retaggio di superstizioni appartenenti al passato, che non si sono ancora estinte del tutto e che hanno contribuito a ispirare le storie di alcuni film.
Perché, diciamolo francamente, il fatto che una semplice fotografia possa rubarci l’anima, maledire la nostra esistenza per sempre (o per quel poco che ci rimane) , è decisamente affascinante.
Ed è proprio questo il tema portante di Polaroid, l’horror diretto dal regista norvegese Lars Klevberg, in arrivo nelle nostre sale il 6 giugno.
Proprio come successo per Lights Out e La Madre, Polaroid è ispirato ad un cortometraggio omonimo diretto sempre da Klevberg nel 2014.
Al centro della storia una giovane studentessa, che un giorno trova per caso una macchina fotografica Polaroid. Un oggetto molto particolare, che sembra causare la morte di ogni persona fotografata.
Da oggetto di culto a strumento del demonio il passo è breve ed ecco che la macchina fotografica Polaroid diventa lo spunto perfetto per un film horror.
In un mondo in cui l’ossessione per la fotografia (e per i selfie) va di pari passo con la riscoperta dell’analogico, una storia del genere risulta a dir poco perfetta. Perché trasporta l’orrore nell’ossessione del momento.
Scritto da Blair Butler (Attack of the Show! Slasher School, America’s Next Top Zombie Idol), Polaroid vede nel cast Kathryn Prescott (Finding Carter), Mitch Pileggi (X-Files), Grace Zabriskie (Twin Peaks), Tyler Young (Eyewitness), Keenan Tracey (Bates Motel), Samantha Logan (The Fosters), Priscilla Quintana (Stranded), Madelaine Petsch (Riverdale) e Javier Botet (Mama, IT).
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