Black Mirror 5 è un ponte tra passato e futuro: la recensione dei nuovi episodi

Black Mirror 5 è un ponte tra passato e futuro: la recensione dei nuovi episodi

Di Lorenzo Pedrazzi

È particolarmente significativo che, dopo l’esperimento interattivo di Bandersnatch, la serie Black Mirror torni alle origini con una stagione da tre episodi, come all’epoca di Channel 4. Interattività a parte, Charlie Brooker ha lavorato molto sui generi dopo il passaggio a Netflix, guidando lo show verso nuovi lidi creativi: le puntate della terza e della quarta stagione – pur mantenendo la tecnologia di consumo al centro del discorso – hanno infatti sperimentato la commistione con l’horror, il giallo, il thriller, il melò, la commedia romantica, il genere bellico e la space opera, dimostrando quanto la fantascienza sia permeabile alle influenze esterne, per garantire una varietà che non è mai mancata. La quinta sembra invece rallentare il passo, come se Brooker volesse prendersi un momento di riflessione; i nuovi episodi diventano quindi una buona occasione per ripartire dall’inizio, ovvero dal cuore stesso dell’antologia, ma sempre con un occhio rivolto al futuro.

Striking Vipers e Smithereens, in effetti, potrebbero tranquillamente far parte delle prime due stagioni, poiché giocano sulle diverse sfumature del dramma e dei conflitti caratteriali, dove la tecnologia assume un ruolo alienante e distruttivo. Di contro, Rachel, Jack and Ashley Too si rifà alle ultime incarnazioni della serie, puntando sulla contaminazione dei generi e soprattutto dei toni, talvolta contrastanti.

Vediamoli nel dettaglio.

Striking Vipers

Black Mirror 5

Danny (Anthony Mackie) e Karl (Yahya Abdul Mateen II) sono amici fin dai tempi dell’università, ma ultimamente si sono allontanati. Quando Danny compie 38 anni, Karl gli regala l’ultima versione di Striking Vipers, un picchiaduro a incontri con cui giocavano sempre al college, prendendo sempre gli stessi personaggi: Danny sceglieva un artista marziale chiamato Lance, mentre Karl una guerriera di nome Roxette. Ora, però, Striking Vipers si è evoluto, e utilizza la stessa tecnologia VR che abbiamo visto in U.S.S. Callister: basta applicare sulla tempia un piccolo dispositivo circolare, e la mente è subito proiettata nel gioco, da vivere in prima persona. Danny ha un figlio con Theo (Nicole Beharie), ed è annoiato dalla sua vita familiare; Karl è single, ma vive diverse avventure con ragazze più giovani conosciute sulle app di dating. I due amici cominciano a giocare on-line, con la differenza che stavolta impersonano completamente i rispettivi lottatori, e possono provare ogni singola sensazione come se fosse reale. Dopo un primo combattimento, però, lo scontro si trasforma in attrazione fisica.

L’episodio interiorizza la fantascienza nell’accezione che le diede Damon Knight, già citato su queste pagine: «Una vicenda di esseri umani, con problemi umani, che non potrebbe verificarsi se non nelle circostanze espresse nei precisi assunti speculativi della vicenda stessa». Ciò significa che l’elemento fantascientifico della trama – l’interfaccia VR di Striking Vipers – innesca un conflitto che, altrimenti, non avrebbe luogo. L’omoerotismo latente fra Danny e Karl emerge in superficie solo grazie al filtro tecnologico, nell’illusione che il virtuale sia ancora indipendente dalla realtà (non lo è). L’invadenza della tecnologia nelle nostre vite assottiglia quel confine, a tal punto che il nostro io virtuale è indistinguibile da quello reale, e ciò che accade on-line ha praticamente lo stesso peso. Di conseguenza, Danny vede la relazione con Karl come una scioccante deviazione dalla sua eterosessualità, nonostante l’amico “indossi” l’avatar di Roxette, interpretata dalla Pom Klementieff di Guardiani della Galassia.

L’episodio non sfrutta tutte le potenzialità del suo soggetto (solo accennato, ad esempio, il discorso sulla superiorità dell’orgasmo femminile rispetto a quello maschile), eppure conserva il maggior pregio di Black Mirror: inquadrare una determinata problematica da una prospettiva originale, stimolando una riflessione che parta dalla fantascienza per riverberarsi sul nostro quotidiano. L’intensità melodrammatica scarseggia – soprattutto in relazione ad altre puntate con temi simili, come The Entire History of You – ma potrebbe non essere casuale: i compromessi sono connaturati alla classe sociale dei protagonisti, una media borghesia ipocrita che fa di tutto per salvare la faccia, difendere le tradizioni e mantenere i privilegi. Il validissimo trio di interpreti, comunque, rende i personaggi alquanto credibili.

Smithereens

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Raro caso di episodio che si allontana sia dal grottesco sia dalla fantascienza, Smithereens ha come protagonista Chris (Andrew Scott), autista di un servizio di car-sharing chiamato Hitcher. A Londra, Chris si apposta ogni giorno nei pressi della sede di Smithereens, multinazionale che riecheggia palesemente Facebook, proprietaria di un social network molto diffuso. Quando riesce a prendere a bordo un dipendente dell’azienda (Damson Idris), Chris lo rapisce e gli chiede di metterlo in contatto con Billy Bauer (Topher Grace), capo e fondatore della compagnia. La situazione ben presto si complica: il ragazzo che ha rapito è solo uno stagista, non ha contatti diretti con Bauer, e inoltre la polizia scopre il rapimento e circonda l’automobile. Chris però è guidato dalla disperazione: nel suo passato c’è infatti un trauma che non può elaborare, e vuole parlarne con Bauer.

Si tratta certamente dell’episodio più intenso e drammatico, nonché il più straziante di questa breve stagione. Stavolta Brooker non costruisce un intreccio molto sorprendente, ma è bravo a usare la metonimia per chiudere la trama, e inoltre riesce a toccare corde piuttosto delicate. L’ottimo Andrew Scott – appena visto nella seconda stagione di Fleabag – interpreta un personaggio sconvolto e disorientato, emblema del middle man che non riconosce più il mondo in cui vive: sedotto e poi bruciato dai social media, si risveglia soltanto dopo a una tragedia personale, che lo porta a ribellarsi contro un “sistema” pressoché indistruttibile. Per certi aspetti, Chris ricorda il Bill Foster di Un giorno di ordinaria follia (l’uomo medio spinto al crimine da un misto di frustrazione e indifferenza sociale), ma rappresenta più nello specifico una determinata categoria, quella degli high intellect, low income, per citare la frase del negoziatore: alta cultura e basso reddito. Di fronte all’illusione di una rete globale che dovrebbe collegarci tutti, Chris vive il paradosso di non sentirsi ascoltato, sperimentando l’assurdo isolamento di un mondo iperconnesso.

L’incidenza della tecnologia è evidente nel suo dramma, anche se Brooker sceglie una chiave abbastanza prevedibile per intavolare questa riflessione. Più interessanti, di contro, sono le diramazioni dei social attorno alla vicenda principale: Smithereens mette in chiaro l’effetto “depotenziante” di tali piattaforme sulle notizie di cronaca, il loro consumo nevrotico che anestetizza l’elaborazione – sia psicologica sia emotiva – delle informazioni. Soprattutto nell’epilogo, l’episodio rappresenta la rete globale come un Leviatano di particelle spersonalizzate, ignare di aver svenduto i propri dati personali per un surrogato di vicinanza e solidarietà. La facilità con cui Smithereens e lo stesso Bauer recuperano le informazioni su Chris è inquietante, e dovrebbe farci meditare sulle nostre scelte. Una puntata forse poco originale, ma ugualmente efficace.

Rachel, Jack and Ashley Too

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Se parliamo di originalità, Rachel, Jack and Ashley Too è l’episodio più spiazzante del trio, nonché il più vicino alle ultime evoluzioni di Black Mirror. La trama ruota attorno a Rachel (Angourie Rice), quindicenne americana che vive con il padre derattizzatore e la sorella maggiore Jack (Madison Davenport), appassionata di musica rock. Rachel, solitaria e introversa, adora invece la popstar Ashley O (Miley Cyrus), le cui canzoni sono intrise di retorica sull’empowerment, la realizzazione dei sogni e l’affermazione del sé. Quando viene messa in commercio Ashley Too, una bambola sulla quale è caricata la personalità della cantante, Rachel la chiede per il suo compleanno, trattandola come una vera amica: Ashley Too è incoraggiante, simpatica, dà consigli di make-up, e inoltre la sprona a ballare allo spettacolo della scuola. Peccato però che la vera Ashley nasconda una realtà ben diversa, fatta di psicofarmaci, una cinica zia-manager (Susan Pourfar), un medico connivente ed enormi interessi economici. Ashley vorrebbe cantare il disagio che sente dentro di sé, quindi smette di prendere le pillole, ma le conseguenze delle sue azioni la mettono in grave pericolo… coinvolgendo persino Rachel e Jack.

Puntata bizzarra per la sua commistione di registri, Rachel, Jack and Ashley Too cambia bruscamente tono a metà percorso, passando dal dramma intimista alla commedia, con slanci da avventura adolescenziale. Un mutamento fin troppo repentino, ma forse volontario in una trama così disomogenea, dove gli snodi narrativi sfidano anche la più stoica sospensione d’incredulità. Se si accettano tali forzature, l’episodio è molto godibile sia nelle sfumature drammatiche sia in quelle comiche: il nucleo familiare di Rachel ha qualcosa di dolente che riecheggia nell’isolamento dei tre personaggi, e lo stesso discorso vale anche per Ashley, in cui Miley Cyrus sembra sfogare un malessere che risale ai tempi di Hannah Montana. La catastrofe parrebbe inevitabile, ma Brooker ci spiazza, cambia ritmo e si concede un ottimismo forse insolito per Black Mirror, ma coerente con gli sviluppi della puntata.

Al contempo, però, lo sceneggiatore medita su come fagocitiamo la cultura pop nel mondo contemporaneo, pretendendo figure pubbliche “esemplari” che trasmettano messaggi costruttivi, i cui contenuti si deteriorano non appena diventano retorici e stereotipati. La mercificazione dell’empowerment non aiuta la crescita personale, poiché impone un modello di autoaffermazione basato su valori fragilissimi (il successo, l’individualismo sfrenato), peraltro riprodotti con la logica glaciale della catena di montaggio. La tecnologia di consumo interviene come un filtro tra la persona e la sua rappresentazione, che diventa un simulacro inattendibile e addomesticato dal commercio. In tutto questo, la presenza di una superstar come Miley Cyrus influenza certamente il risultato: pur non essendo la protagonista assoluta in termini di screen time, la cantante è il nucleo attorno cui è stato costruito l’episodio, e il finale lo dimostra. Alcuni diranno che l’essenza dello show ne esca snaturata, e in parte è vero, ma non si può negare che Brooker sia comunque riuscito a infilarci un ragionamento arguto sulla percezione degli idoli pop tra gli adolescenti, e il conseguente sfruttamento della loro immagine.

Black Mirror 5

Insomma, tre episodi eterogenei che mettono in relazione il passato, il presente e il potenziale futuro di Black Mirror: forse meno brillanti rispetto alle altre stagioni, ma sempre capaci di suscitare una riflessione, un dubbio, una domanda nella mente del pubblico. E non è poco.

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