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La storia di Highlander – L’ultimo Immortale (FantaDoc)

Pubblicato il 23 maggio 2019 di DocManhattan

È un fatto piuttosto curioso, ma tra Highlander – L’ultimo immortaleThe Hitcher – La lunga strada della paura, usciti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro nell’inverno dell’86, solo uno è tratto da una storia nata facendo davvero l’autostop. E non è The Hitcher, che pure parla di un autostoppista psicopatico.

Highlander – L’ultimo immortale era infatti in principio la tesina di uno studente di cinema dell’Università della California, Gregory Widen. Qualche tempo prima, quando aveva solo vent’anni, Widen aveva fatto un viaggio in autostop attraverso l’Europa e un giorno, mentre si trovava nella Torre di Londra, si era chiesto che effetto avrebbe fatto aver vissuto abbastanza a lungo da aver utilizzato in battaglia le armi e armature che stava ammirando. Attingendo ai ricordi dei giorni trascorsi in Scozia, aveva scritto così un trattamento, che tempo dopo riesce a vendere ai produttori Peter S. Davis e Bill Panzer per 200mila dollari.

Widen in seguito lavorerà come pompiere, mettendo a frutto anche quell’esperienza con il copione di Fuoco assassino (Backdraft), il film del ’91 di Ron Howard. Ma a metà anni 80 è solo uno studente, è contento dei soldi portati a casa e poco gli importa se il copione viene rimaneggiato da due professionisti, che aumentano la portata della pellicola – non più un film di serie B a basso budget dopo l’ingaggio di Sean Connery – e ammorbidiscono vari dialoghi e tratti della storia di Widen, rendendo in particolare più netta la divisione tra buono e cattivo.

Il mood che il giovane aveva pescato da uno dei suoi libri preferiti, Intervista col vampiro di Ann Rice, è andato perduto, a vantaggio di un taglio molto più patinato, ma almeno i produttori hanno deciso di tenere il suo titolo originale. Quell’Highlander nato discutendo una lista infinita di possibili titoli con i suoi due compagni di stanza all’UCLA. Si trattava, per la cronaca, dei futuri registi e sceneggiatori Ethan Wiley e Fredd Dekker (Chi è sepolto in quella casa?, Scuola di Mostri, Robocop 3).

A Davis e Panzer di Highlander piace il mix di azione, avventura, fantastico e romanticismo, e decidono di rischiare, puntando su un regista giovane. L’australiano Russell Mulcahy ha ai tempi poco più di trent’anni, viene dai videoclip e l’unico film vero e proprio girato fino a quel momento è Razorback. Cioè un horror su un gigantesco cinghiale assassino.

Mulcahy è affascinato dal progetto: il regista di tanti video dei Culture Club, dei Duran Duran e di Elton John, giusto per fare qualche nome, è convinto di poter cavare un bel film dai 16 milioni di dollari che ha a disposizione. Le riprese iniziano alla fine dell’aprile del 1985 e durano poco più di due mesi, per concludersi in estate a New York, dopo aver girato in studio a Londra e in varie location in Scozia. Il vero problema sono i tempi, ma non per Mulcahy: per tutti gli altri.

La formazione da regista di videoclip porta Mulcahy a girare fino a “50 ore di pellicola per una sequenza da cinque minuti”. In un’intervista dell’86, spiega che la troupe faticava a stargli dietro. In tutto questo s’inserisce la partecipazione di Sean Connery: la stella scozzese era stata ingaggiato per un milione di dollari a fronte di soli sette giorni di lavoro. Sette. Connery era convintissimo che non sarebbero bastati e continuava a ripetere che avrebbero sforato.

Ma quello era il regista di The Wild Boys, aveva domato un cinghiale mangiauomini ed era abituato a ritmi forsennati: una settimana – fatta da sette giorni con picchi di 19 ore di lavoro l’uno – più tardi, e Connery aveva finito le sue riprese come Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez (l’unico personaggio, insieme a James Bond, interpretato da Sean Connery in più di un film).

Il ruolo del protagonista, l’immortale Connor MacLeod, sarebbe dovuto andare a Kurt Russell. Che però si era tirato indietro, pare pure qui – come per Ladyhawke – per via di Goldie Hawn. Stavolta su consiglio di quest’ultima, e non per una faccenda di saudade mista a scarsa voglia di sopportare le agitazioni sindacali in Italia. La parte venne quindi proposta a Christopher Lambert, ventinovenne nato a New York ma figlio di un diplomatico francese, apparso già in molti film Oltralpe e diventato famoso nell’84 grazie a Greystoke – La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie. Già un sex symbol, dopo aver dichiarato la sua passione per gli orsacchiotti in un’intervista a una rivista francese, Lambert viene subissato dai peluche inviati dalle fan. Son problemi. Convinto di essere più fortunato che talentuoso, Lambert ha approcciato il mondo del cinema senza prenderlo troppo sul serio e non se la tira.

Sul set, per quella settimana di full immersion trascorsa insieme, Lambert lega con Sean Connery. Si trova a suo agio con il regista, praticamente coetaneo, e soprattutto vive una relazione con una delle due protagoniste femminili, Beatie Edney (nel film Heather MacLeod; l’altra era Roxanne Hart). Il Kurgan, la nemesi di MacLeod, è l’imponente Clancy Brown (Le ali della libertà, Starship Troopers).

Un film dal taglio così prossimo al mondo dei videoclip e alla prima MTV Generation aveva ovviamente bisogno di una colonna sonora adeguata. Ad accompagnare le musiche orchestrali di Michael Kamen sarebbero dovuti essere i Marillion, ma la band era alle prese con un tour e alla fine il soundtrack del film incluse sette brani dei Queen, molti dei quali divenuti poi celebri hit della band di Mercury, May, Taylor e Deacon, come A Kind of Magic, Princes of the Universe e Who Wants to Live Forever.

Highlander debutta al cinema negli USA il 7 marzo del 1986 (in Italia, come d’uso ai tempi, sarebbe arrivato solo diversi mesi dopo, il 30 ottobre). E gli USA non accolgono esattamente a braccia aperte la pellicola di Mulcahy. Anche Highlander – L’ultimo immortale fa parte del club dei flop al botteghino a cui solo in seguito è stato assegnato lo status di film cult, il gettone per meritarsi una rivalutazione postuma. Come buona parte dei film discussi finora in questa rubrica, ma con un tonfo nell’acqua ancora più sonoro. La stampa americana, ai tempi, non è tenera: il New York Times scrive di un film affidato a personaggi senza senso, in cui “i dialoghi sembrano quelli dello spot televisivo di una ditta che noleggia automobili”.

Le decapitazioni di Connor MacLeod e la battle royale tra immortali appassionati di armi bianche portano a casa meno di sei milioni di dollari. In tutto il mondo sono appena 12, molto meno dei 16 investiti per girarlo. Novantottesimo film del 1986 per incassi, a un pelo dallo scivolare fuori dalla top 100, Highlander si ferma comunque due posizioni più sopra proprio di The Hitcher – La lunga strada della paura. Almeno la sfida dell’autostop era stata vinta, per quello che valeva. Cioè, all’incirca, nulla.

Sono stati il mercato dell’home video e il passaparola a salvare dall’oblio il franchise e a portare di conseguenza nel ’91 a Highlander II – Il ritorno, il primo di una lunga colonna di seguiti sufficientemente agghiaccianti. E a nastro alla serie tv su Duncan MacLeod (Adrian Paul) e alle trasposizioni animate, come quella roba franco-canadese che trasmettevano da noi nel contenitore Solletico e che di tanto in tanto ancora popola gli incubi dell’autore del presente articolo.

Ma grazie tante, VHS. Sei un’amica.

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