Cinema Recensioni

Spara, prega, ama: la recensione di John Wick 3

Pubblicato il 13 maggio 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Se il cinema d’azione è una danza di corpi spinti all’estremo (e il Tom Cruise dell’ultimo Mission: Impossible ne è la prova lampante), allora Keanu Reeves merita un posto da primo ballerino in questo spettacolo ipercinetico, soprattutto dopo l’estenuante performance di John Wick 3: Parabellum. Già in Matrix l’attore canadese praticava i suoi stunt, ma John Wick gli permette di lavorare su un’azione più fisica, viscerale, dove lo schermo e le coreografie restituiscono il peso di ogni singolo colpo. Non a caso, il successo del primo capitolo deriva sia dall’efficacia della premessa iniziale sia dalla freschezza dei combattimenti, con quel “gun-fu” che ha influenzato tutto l’action americano negli ultimi cinque anni; si trattava però di una storia compiuta, soddisfacente e autoconclusiva, un classico vengeance movie aggiornato al gusto contemporaneo. Per trasformarlo in un franchise, il regista Chad Stahelski e lo sceneggiatore Derek Kolstad hanno dovuto approfondirne la “mitologia”, espandendo le premesse di un sottomondo criminale che detta regole proprie. Così, se il fiacco secondo capitolo aveva un ruolo transitorio, John Wick 3 rivitalizza la saga nelle sue caratteristiche basilari, pur scontando i limiti di una trama che non era stata concepita come seriale.

Questa vocazione alla serialità è chiara fin dal principio: il film riparte infatti dall’epilogo dell’episodio precedente, con John (Keanu Reeves) in fuga per New York dopo la scomunica del Continental Hotel, braccato da decine di sicari che vogliono incassare la ricca taglia sulla sua testa. Assistiamo quindi a un completo ribaltamento delle circostanze, che rende il terzo capitolo quasi speculare rispetto al primo. John non è più il cacciatore della situazione, bensì la preda, e ogni questione personale sembra archiviata in favore della mera sopravvivenza. Ovviamente è solo un’impressione: come dice lui stesso, John vuole continuare a vivere solo per ricordare, non perché tenga in particolar modo alla sua vita. Sopravvivere, per lui, significa poter tramandare la memoria di quell’amore perduto, coagulatosi nella tenera figura del cagnolino. È un uomo prigioniero del passato, in nome del quale ha sacrificato la sua ultima possibilità di un’esistenza tranquilla.

Le sue peregrinazioni acquisiscono ben presto un andamento rituale, poiché la sceneggiatura non fa altro che ripetere il solito schema: John combatte, si libera dei nemici, fa visita a una vecchia conoscenza, la prega di aiutarlo, combatte di nuovo e ricomincia da capo. Così, fino alla fine. La sceneggiatura di John Wick 3 prende alla lettera il vecchio dettame secondo cui bisogna inserire almeno una scena d’azione ogni dieci pagine, e si rivela estremamente schematica nella sua struttura narrativa, fin troppo artificiosa. Ogni passaggio è un semplice giustificativo per l’azione, e lo stesso vale anche per alcuni comprimari, come la splendida Sofia di Halle Berry. Personaggio sostanzialmente gratuito, Sofia diventa però l’emblema dell’intero film: la sua presenza non è motivata dalla trama, eppure funziona benissimo in termini spettacolari, diventando l’epicentro di un cinema delle attrazioni che privilegia la frenesia sulla coerenza, e non può fermarsi mai.

In tal senso, quella di John Wick si conferma l’unica saga action americana capace di confrontarsi con i maestri d’Oriente, soprattutto The Raid e The Villainess, quest’ultimo citato da Reeves e Stahelski come fonte d’ispirazione. Da quel cinema, John Wick 3 ricava il gusto per l’azione parossistica che sfrutta l’ambiente come un’arma, allestendo scontri fisici molto brutali, dinamici ed eterogenei. Il merito è in gran parte del coordinatore Jonathan Eusebio, che compie un lavoro eccezionale sui corpi degli stunt e sulla loro disposizione nello spazio: complici il mestiere di Stahelski e il talento di Dan Laustsen (direttore della fotografia degli ultimi film di Del Toro), l’azione è resa sullo schermo con limpidezza, senza quei trucchetti di montaggio che spesso mascherano l’inesperienza degli attori. Qui, al contrario, le inquadrature valorizzano tanto le coreografie quanto l’abilità degli interpreti, tra cui si fa notare un grande artista marziale come Mark Dacascos, rivale e fan di John Wick. A sorprendere è anche la ricerca continua di nuove soluzioni, un netto passo avanti rispetto al secondo episodio. La varietà degli strumenti a disposizione del film risulta evidente soprattutto nelle scene a Casablanca, dove un’agguerrita Halle Berry ricorda a Hollywood che c’è ancora spazio per lei nei blockbuster, e i due cani di Sofia sono al centro di coreografie elaboratissime: mai vista una simile orchestrazione di corpi umani e animali in una scena d’azione, sempre con la massima chiarezza espositiva.

Gli scontri si fanno più ripetitivi – ma non tediosi – nel finale, quando però si possono apprezzare al meglio le scenografie di Kevin Kavanaugh, il cui Continental Hotel sembra quasi trasportarci in una dimensione sovrasensibile fatta di cristalli e immagini digitali. In fondo, i corpi dei protagonisti non sono meno “irreali” degli ambienti che li circondano, a cominciare dall’indistruttibile John: le ambizioni seriali spingono il film ben oltre la sospensione d’incredulità, spiazzando al contempo chi si aspettava qualcosa di più definitivo. Ma ormai lo sappiamo: il corpo di John Wick non è tarato per il riposo.

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