C’è sempre stato qualcosa di naïf nel cinema di mostri giganti, un’aura piacevolmente infantile che permane anche nelle grandi produzioni. Ovviamente i film del MonsterVerse – l’universo narrativo che comprende i kaijū targati Warner Bros. – sono realizzati con il meglio delle tecnologie digitali, grandi set e attori di primo piano, ma dei vecchi monster movie resta sempre una traccia visibile, non tanto nello stile tecnico-formale (siamo lontani dall’artigianalità di quelle pellicole) quanto nell’idea di fondo. Oltre alla fascinazione stessa per i mostri, c’è un gusto per la distruzione che rievoca i giochi dei bambini, il piacere di sentirsi onnipotenti di fronte a uno scenario immaginato e gestibile: che si tratti di distruggere un modellino di Tokio, una replica digitale di San Francisco o una torre di mattoncini per costruzioni, non c’è molta differenza.
Anche Godzilla II: King of the Monsters pizzica queste corde, ma lo fa con più entusiasmo rispetto al suo prequel. Laddove il film di Gareth Edwards era nebuloso e trattenuto, quello di Michael Dougherty offre al pubblico ciò che vuole, ovvero grandi battaglie tra kaijū che punteggiano la trama dall’inizio alla fine, alternandosi alla marginalità delle vicende umane. La principale fonte d’ispirazione è Ghidorah! Il mostro a tre teste (film della Toho che riunisce Godzilla, Ghidorah, Mothra e Rodan), ma Dougherty lo rielabora sulla base del franchise americano, caratterizzato da linee guida molto precise: le enormi creature della saga sono antichi titani dormienti, incarnazione della natura e delle sue leggi. In tal senso, Godzilla interviene come garante degli equilibri naturali, senza essere propriamente né buono né cattivo; è cinico e spietato come la natura stessa, eppure giusto.
Questo parziale superamento del manicheismo costringe gli uomini in una situazione ancor più precaria, evidenziandone la sostanziale inutilità nei monster movie. I personaggi umani servono soltanto per il canovaccio narrativo, un vago intreccio che permette di inquadrare le lotte fra mostri in una prospettiva riconoscibile: in altre parole, hanno la funzione di razionalizzare la forza bruta della natura, cercando un senso in quello che succede o innescandone gli eventi. Come già in Godzilla e Kong: Skull Island, anche qui gli umani sono trascurabili, gravati da dialoghi stereotipati e battutine esili che tentano di alleggerire l’atmosfera. In compenso, però, la Dott.ssa Emma Russell di Vera Farmiga introduce un elemento di maggiore ambiguità, utile a interrogarsi sulle frontiere morali dei personaggi davanti al cataclisma imminente. Quando si parla di ecologia, insomma, gli uomini finiscono sempre per attirarsi addosso le loro sventure, e la minaccia dei mostri ha spesso un’origine umana: che siano creati dalle nostre mani (radiazioni, esperimenti…) o risvegliati da un sonno millenario, la responsabilità non è mai esterna.
Da questo punto di vista, film come Godzilla II: King of the Monsters incarnano il terrore per i cambiamenti irreversibili che noi stessi provochiamo sul pianeta, finendo addirittura per peggiorare le cose quando cerchiamo di rimediare ai nostri errori. Ogni soluzione pare sciagurata, indipendentemente dal fatto che nasca da un delirante utopismo, da una mentalità reazionaria o da un’apparente ragionevolezza. La sceneggiatura di Michael Dougherty e Zach Shields inanella una serie di circostanze che sfidano la sospensione d’incredulità, ma talvolta riescono a evidenziare la ripetitività della follia umana, capace di seminare l’inferno anche quando cerca di salvare il pianeta. A giovarne – paradossalmente – è la spettacolarità del film, che non si pone limiti nella messinscena dell’azione. Se è vero che il montaggio del trio Roger Barton / Bob Ducsay / Richard Pearson tende a essere un po’ confusionario, Dougherty ha il merito di trovare un compromesso fra la cupezza del primo Godzilla e la luminosità cromatica di Skull Island, assegnando a ogni mostro un colore specifico e riconoscibile, virato in toni acidi che rimandano a una dimensione sovrannaturale. L’effetto stupefacente, però, sta tutto nella grandeur delle battaglie: il regista di Trick ‘r Treat ha assorbito la lezione di Guillermo Del Toro in Pacific Rim, e valorizza sia le dimensioni delle creature sia la loro pesantezza “titanica”, mettendoci in soggezione con battaglie gigantesche, brutali, che relegano gli umani al ruolo di spettatori (quasi) inermi.
Se ne esce sazi e soddisfatti, ma anche curiosi di vedere cosa farà questo MonsterVerse per alzare ancora l’asticella, dato che Godzilla vs. Kong è dietro l’angolo. Qualunque cosa succeda, gli uomini potranno solo restare a guardare.
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