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C’era una volta…a Hollywood di Quentin Tarantino: la nostra recensione

Pubblicato il 21 maggio 2019 di Andrea D'Addio

Febbraio del 1969: l’attore Rick Dalton e la sua fidata controfigura Cliff Booth sono sul set di una serie western. Lavorano assieme da quasi nove anni, la loro collaborazione però non si ferma al set. Cliff fa anche da factotum a Rick. Lo porta in giro, gli fa commissioni di vario tipo e se c’è bisogno gli sistema anche l’antenna del tetto della sua villa (proprio accanto a quella di Roman Polanski e Sharon Tate). La carriera di Rick ha assunto da un po’ una china discendente che solo un possibile periodo in Italia, lavorando a qualche spaghetti western “del secondo miglior regista del genere” gli specifica- riferendosi a Sergio Corbucci –  il produttore Martin Schwarz sottintendendo Sergio Leone al primo, potrebbe forse rilanciare. Nel frattempo Cliff si trova a visitare quasi casualmente il ranch Spahn, lo stesso dove Charles Manson ha dato vita ad una comunità di hippie abbastanza esaltati…

Il trailer di C’era una volta a…Hollywood

Con un titolo come C’era una volta a…Hollywood, la firma di Tarantino, due protagonisti come DiCaprio e Brad Pitt, stelle di un cast incredibile per quantità e popolarità di nomi, è impossibile non entrare in sala con l’aspettativa di qualcosa di epico. Lo è? Sì e no.

Facciamo una premessa: Tarantino produce Cinema. Non c’è un aspetto di ogni suo film, battute, direzione e scelta degli attori, inquadrature, musica, costumi, fotografia, trucco e scenografia che non meriti di essere studiato sui libri. Quindi, a scanso di equivoci, diciamo subito che C’era una volta a… Hollywood è un grande film. Si ride, ci si commuove, si rimane affascinati dalla bravura dei due protagonisti e a quanto bene funzionino come coppia, eppure proprio l’ambizione che si porta dietro, il desiderio di raccontare l’ultimo periodo d’oro di Hollywood dalla prospettiva degli attori (la vita sia sul set che fuori dal set) in una maniera che rimanga scolpita nel tempo, finisce con il dilatare più del solito i tempi della narrazione. Vero, non è una novità per Tarantino, ma stavolta alcuni dei quadretti creati non sono solo avulsi dalla narrazione, ma anche meno brillanti del solito. E così, nonostante molte scene siano splendide per suspense o per ironia, in altre si rischia persino qualche sbadiglio nelle quasi tre ore di proiezione. Non a caso la pellicola acquista una marcia in più nell’ultima ora quando i vari fili della storia (alcuni, non tutti) si riuniscono, inizia l’azione e finalmente emerge una metafora tanto cara a Tarantino: non ci sarebbero grandi star se non ci fossero “piccole star”, o meglio, mestieranti, così come non esisterebbe il cinema d’autore se dietro non ci fosse il grande cinema commerciale (come lo è stato, ad esempio, anche quello italiano degli spaghetti western). Cliff Booth copre le spalle a Rick Dalton tanto quanto Rick Dalton potrebbe farlo con i suoi celebrati vicini. Non l’aveva mai detto nessuno con un film, non con una pellicola così articolata, ricca di volti e storie. Non poteva che farlo Tarantino. E se anche forse se ne può rimanere un pizzico delusi, non possiamo che dirgli grazie.

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