L’excursus autocelebrativo della Disney continua ad attingere al Rinascimento dello studio d’animazione, puntando sulla nostalgia dei trentenni odierni e sulla curiosità del pubblico infantile. In effetti, la natura ibrida di questi remake è dovuta proprio alla duplicità del loro intento, e alle peculiari caratteristiche delle opere a cui s’ispirano: i cartoon – cioè, i disegni animati – hanno un’impostazione diversa rispetto al live-action, e possono permettersi espedienti formali che i film “dal vivo” faticano a digerire. Anche per questa ragione, Aladdin è un crogiolo di soluzioni visive che lottano fra loro, cercando di mediare tra i fasti del passato e le esigenze dell’attualità.
La storia è fedelissima all’originale: Aladdin (Mena Massoud) e la scimmietta Abu sono due ladruncoli che vivono alla giornata nella città di Agrabah, dove incontrano l’affascinante Jasmine (Naomi Scott) senza sapere che si tratta della principessa. Quest’ultima è uscita dal palazzo per sfuggire alla protezione soffocante del padre, il Sultano, e s’invaghisce subito di Aladdin, che la ricambia. Dal loro incontro emerge subito l’ossatura “tematica” del film: nonostante le enormi differenze di status, i due amanti si sentono prigionieri di una predestinazione indissolubile, e quindi condannati a una vita di stenti (Aladdin) o di passività regale (Jasmine). La spinta ad autodeterminarsi è ancora una volta il fulcro del racconto, soprattutto nella protagonista femminile, la cui evoluzione è influenzata dalla retorica dell’empowerment. Se la principessa del film d’animazione poteva già dirsi “emancipata”, questa rilettura gioca a carte molto più scoperte: la sceneggiatura di John August e Guy Ritchie, infatti, non va certo per il sottile, e insiste sulle ambizioni di Jasmine come se temesse ambiguità o incomprensioni, in modo alquanto didascalico.
Comunque, sulla strada dei nostri eroi si mette Jafar (Marwan Kenzari), il Gran Visir del regno, ossessionato dal potere e consumato dall’odio per un sultanato vicino. Jafar ha bisogno di un “diamante grezzo” che si meriti l’accesso alla caverna delle meraviglie, dov’è custodita una lampada magica. Aladdin è proprio la persona che sta cercando, quindi lo fa rapire e lo convince a entrare nella caverna, unico modo per rendersi degno agli occhi di una principessa. L’incontro con un simpatico Tappeto volante prelude allo sfregamento della lampada, da cui esce un Genio (Will Smith) che gli concede tre desideri.
È qui che Aladdin dà il meglio di sé, libero dalle urgenze “pedagogiche” del politicamente corretto. Quando Guy Ritchie non è imbrigliato da legacci educativi, allestisce uno spettacolo barocco e stravagante che appaga lo sguardo, figlio del vecchio cinema romantico e di un classicone come Il ladro di Bagdad. Non a caso, anche stavolta si sente il gusto tipicamente hollywoodiano del pastiche, senza badare troppo all’uniformità culturale e alla ricostruzione storica: un’Arabia da sogno si mescola a Bollywood, sciogliendosi nello stesso calderone grossolano e divertente. Le manifestazioni del Genio si avvalgono di una CGI accettabile, e Will Smith fa il suo dovere di intrattenitore multitasking: canta, balla, recita in performance capture e di persona, guidando le danze come in un videoclip degli anni Novanta.
Anche Mena Massoud e Naomi Scott sono funzionali ai rispettivi personaggi (al contrario dell’inespressivo Marwan Kenzari), ma il tentativo di emulare il film d’animazione sortisce effetti altalenanti: se la scena più iconica – Il mondo è mio – tutto sommato rende bene, altri intermezzi musicali risultano invece più rigidi e leziosi, dimostrando che il linguaggio dei cartoon ha una libertà creativa ben più ampia rispetto al live-action, soprattutto nell’evocazione delle fantasie. Trasporre i classici animati significa operare delle inevitabili forzature sui loro codici espressivi, a meno che non si scelga un altro tipo di animazione; un caso emblematico è l’ottimo Libro della Giungla, film che ha davvero saputo proporci una lettura alternativa dell’originale. Aladdin, dal canto suo, sceglie l’ibridazione di tecniche e suggestioni molto diverse: gli attori in carne e ossa per i personaggi umani; la grafica digitale per i panorami e le creature; le scenografie fisiche per la città e gli interni; i tessuti sgargianti per i costumi. Pur essendo votati a restituire l’atmosfera variopinta del cartoon, non sempre questi elementi convivono in armonia, e l’esito può sembrare un po’ artificioso. La sequenza in cui Jasmine canta il suo inno all’emancipazione, un brano inedito chiamato Speechless, è esemplare in tal senso.
Resta comunque un film godibile, piacevolmente démodé nel suo rifarsi al cinema romantico, e consapevole di non doversi prendere troppo sul serio. Meglio così.
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