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Qualunque riflessione su The OA non può prescindere dalle radici cinematografiche dei suoi autori, Brit Marling e Zal Batmanglij. Contrariamente a quello che si pensa, la serie Netflix non è scaturita dal nulla, ma trova spazio in un contesto ben preciso: la fantascienza indie americana dell’attuale decennio, di cui Marling è forse l’emblema principale. Film come Sound of My Voice, Another Earth e I, Origins (tutti co-sceneggiati dall’attrice statunitense) veicolano l’utopia di indagare il sovrasensibile attraverso la scienza, realizzando un pastiche – talvolta ben riuscito, talvolta discutibile – fra intimismo, misticismo e sci-fi minimalista, che rievoca certi aspetti del movimento New Age e punta sulla contaminazione. The OA rappresenta il culmine di questo percorso, anche perché il racconto seriale garantisce una continuità nel tempo che sfiora livelli epici, soprattutto nella seconda stagione. Così, se la prima conservava un legame piuttosto saldo con i temi di Sound of My Voice, i nuovi episodi imboccano una strada diversa, tendente a una maggiore varietà poetica e narrativa: si espandono infatti gli orizzonti della trama, che oscilla fra toni e generi piacevolmente conflittuali.
L’avvio è già straniante di per sé, con una scena da incubo dove Prairie (Brit Marling) appare solo di sfuggita, preludio a una lunga introduzione che si allontana dagli eventi e dai personaggi che conosciamo. A San Francisco, l’investigatore privato Karim (Kingsley Ben-Adir) viene contattato da un’anziana signora vietnamita per ritrovare sua nipote Michelle, scomparsa nel nulla mentre guadagnava notevoli somme di denaro con un misterioso gioco on-line. Il gioco in questione è uno strano puzzle ricco di enigmi, diventato l’ossessione di molti adolescenti grazie alla promessa di grandi introiti economici. Senza svelare troppo, basti sapere che le indagini portano Karim sulla pista di una società impegnata in strane ricerche, e che la stessa Prairie viene coinvolta in questa faccenda dopo il “salto” dimensionale della scorsa stagione.
Di fatto, Marling e Batmanglij spalancano le porte a un tema che in precedenza era stato solo accennato, la teoria dei mondi paralleli, archiviando bruscamente – e un po’ goffamente – l’ambiguità che circondava la protagonista. Le riflessioni sul narratore inaffidabile e sul potere della parola (eredità di Sound of My Voice) sono accantonate in luogo di una trama più dinamica e avventurosa, dove ogni dubbio sulla sincerità di Prairie viene definitivamente fugato.
Nonostante il disorientamento iniziale, le tessere del mosaico vanno gradualmente al loro posto, e la storia ritrova ben presto i legami con la prima stagione. L’alternanza tra le dimensioni consente inoltre di diversificare i toni del racconto: se le vicende di Prairie nel mondo parallelo diventano sempre più allucinate, quelle di Steve, Buck, Jesse, Alfonso e Betty seguono una rotta “verista” che sembra calibrata sulla sensibilità di Andrew Haigh, il guest director di questa stagione insieme a Anna Rose Holmer. Gli episodi ambientati nel “nostro” mondo si contraddistinguono per lo sguardo ancora più intimista (non è un caso che siano diretti proprio da Haigh), dove gli elementi fantastici sono soltanto un’eco lontana, difficile da percepire e interpretare; insomma, la stessa condizione di spaesamento che viviamo noi spettatori, intenti a cercare un senso logico nell’affabulazione di Prairie.
È significativo che – nei sei episodi (su otto) da me visti in anteprima – questo avvenga dopo i momenti più folli e lisergici della stagione, quando The OA riesce davvero a spiazzare per i suoi cambi improvvisi di andatura. C’è maggior movimento rispetto al passato, più azione, e la serie si apre alle influenze più disparate, che vanno dagli incubi di Twin Peaks all’approccio esplorativo delle avventure grafiche. In effetti, se si esclude il capolavoro firmato David Lynch, The OA è probabilmente lo show più sperimentale degli ultimi anni, capace di sfuggire alle classificazioni tradizionali e all’ossessione tutta americana per la coerenza narrativa. Questa sfida alla razionalità può sortire effetti contrastanti, e talvolta la sceneggiatura ne risente, ma è un elemento di notevole coraggio in un panorama tendenzialmente standardizzato come quello dei drama. A Marling e Batmanglij non interessa cercare l’omogeneità, bensì il dialogo tra suggestioni diverse che, assemblate come la creatura di Frankenstein, danno luogo a un prodotto originale, forse altalenante ma sempre imprevedibile. Affiora quindi l’impressione di assistere a una serie in continua evoluzione, sia in termini di metaracconto (c’è sempre qualcuno che narra la propria esperienza a qualcun altro, e l’atto stesso del narrare diventa l’oggetto della narrazione) sia in termini di “mitologia”, poiché i nuovi episodi espandono gli orizzonti metafisici della serie fino a includere anche le apparizioni più bizzarre.
Ciò che viene a mancare è l’ambiguità di Prairie. Gli autori marginalizzano frettolosamente quegli indizi che potevano mettere in discussione la sua onestà, derubricandoli a espediente terapeutico contro i “deliri” della protagonista. Così facendo, The OA opta in modo esplicito per la fantascienza e il misticismo, lavorando sull’accumulo costante di sorprese ed epifanie inaspettate. Talvolta il risultato può sconcertare, ma in alcune circostanze sfiora corde memorabili, distorcendo la realtà in vedute d’ispirazione pittorica o fumettistica. Eppure, se nella prima stagione noi spettatori ci potevamo identificare nel ruolo di cavie (lo stesso di Prairie e dei suoi compagni nelle celle trasparenti), stavolta possiamo compiere un passo ulteriore verso la comprensione dei fatti: The OA è una serie che coltiva progressivamente il suo pubblico, abituandolo nel corso del tempo ad accettare i meccanismi dell’assurdo.
In fondo, lo show si comporta proprio come Prairie o come la Maggie di Sound of My Voice. Mesmerizzati dalla sua dialettica suadente, non possiamo fare a meno di restare ad ascoltare – o, nel nostro caso, guardare – fino a convincerci che sia tutto vero.
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