NOI, l’America allo specchio: la recensione del film di Jordan Peele

NOI, l’America allo specchio: la recensione del film di Jordan Peele

Di Lorenzo Pedrazzi

Il 25 maggio del 1986, circa sei milioni e mezzo di americani formarono una lunghissima catena umana che abbracciò gli Stati Uniti da una parte all’altra, toccando le città principali della nazione. L’evento fu concepito da Ken Kragen – uno degli organizzatori di USA for Africa – per supportare le organizzazioni locali di beneficienza, ma pare che, dei 35 milioni di dollari raccolti, solo 15 furono ridistribuiti ai bisognosi una volta detratte le spese operative. Lo battezzarono Hands Across America, ed esercitò un notevole influsso sull’immaginario collettivo. Anche il presidente Ronald Reagan partecipò alla catena, nonostante la sua amministrazione fosse sotto attacco proprio per aver tagliato le risorse a molti programmi che aiutavano i senzatetto.

Le contraddizioni di questa vicenda sono le basi su cui Jordan Peele costruisce l’intreccio di Noi, sua seconda regia dopo l’acclamato Get Out, nonché nuovo tassello di una poetica che sta diventando sempre più cristallina. Pur con tutte le cautele possibili, è il film che legittima definitivamente le sue mire autoriali, poiché lascia trasparire un talento e uno sguardo ampiamente riconoscibili, dove i riferimenti cinefili e i debiti verso i “maestri” non offuscano l’individualità del regista. Peele è un movie geek con tutti i crismi, sa esprimersi nello stesso linguaggio del suo pubblico, ma non è un guastatore post-moderno che si trincera dietro le sue ossessioni cinematografiche; al contrario, vede il racconto di genere come intrinsecamente legato alla realtà, sul modello di George Romero, Richard Matheson e The Twilight Zone, di cui peraltro ha curato la nuova versione. Non a caso, l’idea di Noi è vagamente ispirata all’episodio Immagine allo specchio della serie di Rod Serling, da cui ricava il nobile retaggio del Doppelgänger.

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A tal proposito, Peele è ben consapevole che il “doppio” corrisponda in alcune culture a un presagio di morte, e che spesso rappresenti un’ombra distorta dell’originale. La prima inquadratura del film è già un indizio: nel 1986, la piccola Adelaide sta guardando la televisione nella sua cameretta e vede lo spot di Hands Across America, enfio di una retorica tipicamente reaganiana che dipinge un’America inesistente, unita, luminosa e pacificata nei suoi conflitti sociali. In seguito, la bambina va al luna park di Santa Cruz insieme ai genitori (Anna Diop e Yahya Abdul Mateen II), ma il padre la perde di vista mentre gioca a Whac-A-Mole, e Adelaide vive un’esperienza traumatica nel labirinto degli specchi. Dopo i titoli ci ritroviamo nel presente, con Adelaide (Lupita Nyong’o) ormai adulta. Una ripresa a volo d’uccello – il primo di numerosi rimandi a Shining – inquadra l’auto su cui la donna sta viaggiando col marito Gabe (Winston Duke), la figlia maggiore Zora (Shahadi Wright Joseph) e il figlio minore Jason (Evan Alex). Sono diretti a Santa Cruz per le vacanze, e il clima è lieto: Peele ha pur sempre una formazione da umorista, e inanella dialoghi brillanti che vedono nell’ottimo Winston Duke – irriconoscibile rispetto a Black Panther – il fulcro dell’alleggerimento comico. Eppure, non appena si prospetta l’opportunità di trascorrere il pomeriggio in spiaggia con i viziatissimi Tyler (Elisabeth Moss e Tim Heidecker), Adelaide s’incupisce, lasciando trasparire le prime avvisaglie dell’orrore che verrà.

Si tratta effettivamente della stessa spiaggia dove Adelaide visse quel trauma infantile, e le sue preoccupazioni si rivelano fondate quando quattro Doppelgänger si palesano davanti alla loro casa, tenendosi per mano. È qui che Noi si trasforma in un efficace home invasion, per poi evolversi rapidamente in qualcosa di più sinistro e ambizioso, di stampo quasi apocalittico. I “doppi” sono un concentrato di perturbante freudiano, divisi tra il riconoscibile (essendo identici alle loro controparti) e lo straniante, dato che riportano sul viso i segni della follia o della violenza. Si esprimono solo per grugniti, hanno sguardi fissi e movimenti meccanici, sorrisi maniacali e comportamenti disumani. L’unica in grado di parlare è Red, sosia di Adelaide, ma risulta ancora più disturbante con la sua voce aspirata e la postura rigida. Tutti, inoltre, indossano una tuta rossa e un singolo guanto di pelle: doppio riferimento a Michael Jackson (visibile anche sulla maglietta di Adelaide bambina), che Peele considera l’emblema di una tormentata dualità interiore.

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Insomma, quest’idea di conflitto fratricida è centrale in Noi, ma il titolo originale – Us, che è anche la sigla di United States – ne denuncia la natura profondamente americana. Gli Stati Uniti cercano sempre i propri spauracchi oltreconfine, ma Jordan Peele mette in chiaro che il nemico è molto più vicino: basta guardarsi allo specchio. In un paese consumato dalle disuguaglianze razziali e sociali, i Doppelgänger rappresentano quella minoranza oppressa che, a ben vedere, non è affatto “minoritaria”, ma vive nell’ombra del benessere altrui. Il monologo con cui Red si presenta ad Adelaide è esemplare, poiché coagula in sé tutto il rancore di chi è stato abbandonato ed emarginato, gli abitanti dei ghetti metropolitani e delle provincie desolate, i senza dimora e le etnie discriminate, che del sogno americano non ricevono nemmeno gli scarti. In modo sottile, Peele traccia le origini antiche di questa interminabile lotta di classe, citando fin dal principio i misteriosi tunnel che si estendono nel sottosuolo della nazione: impossibile non pensare alla Underground Railroad, l’itinerario segreto percorso dagli schiavi per fuggire negli stati liberi, già al centro de La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead. Come in Get Out, il regista newyorkese confeziona un film stratificato e ipertestuale, dove l’horror si parcellizza in numerosi riferimenti socio-culturali che suggeriscono una lettura inedita della realtà.

Il metaforone, però, non mina la purezza del genere, di cui Peele conosce bene i codici e sa come usarli o rinfrescarli. I toni beffardi non fanno altro che aumentare per contrasto il senso d’inquietudine, e già nei suggestivi titoli di testa si respira un turbamento dal sapore raffinato, che rievoca quell’horror d’autore degli anni Settanta su cui Peele ha plasmato il suo immaginario. A volte tende a sfruttare troppo l’azione come riempitivo, mentre lo scioglimento dell’enigma è affidato a uno spiegone un po’ frettoloso, ma non si può negare la sua ricerca di soluzioni alternative per mettere in scena lo scontro (fisico e psicologico) tra i personaggi, soprattutto nell’epilogo: si nota dal gran lavoro di montaggio sonoro, ma anche dalla ricercatezza delle inquadrature e dei movimenti di macchina che esplorano l’ambiente. Nelle sue mani, la cinepresa è uno strumento d’indagine sulla complessità del reale, sia interiore che esteriore, passato e presente. La Storia si ripete, e l’elezione di un altro grottesco reazionario come Trump lo dimostra, ma Peele non è ingenuo: sa bene che le disuguaglianze sociali sono antiche, forse inestinguibili, e nella figura dei Doppelgänger sintetizza lo spettro di un’ingiustizia atavica e universale (perché gli Stati Uniti, piaccia o meno, sono una nazione-mondo che può riassumere sentimenti condivisi). L’estenuante performance di Lupita Nyong’o è l’epicentro del conflitto, che si rapprende sul volto dei suoi personaggi in una lotta disperata, viscerale, dove entrambe le parti hanno le loro ragioni; al punto da essere quasi intercambiabili, perché il ghigno sardonico di Peele colpisce proprio quando meno te lo aspetti.

Il cinema horror, possiamo dirlo, ha trovato un nuovo autore di riferimento.

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