Eternal Sunshine of the Spotless Mind, quindici anni dopo

Eternal Sunshine of the Spotless Mind, quindici anni dopo

Di Lorenzo Pedrazzi

Non sarebbe meglio, talvolta, limitarsi a dimenticare? Susan Sontag lo diceva provocatoriamente nel suo ultimo libro, Davanti al dolore degli altri, dove sosteneva che “fare pace significa dimenticare”, poiché una memoria difettosa è talvolta necessaria per sotterrare antichi rancori, e scampare così agli errori del passato. Un oblio controllato, insomma, non assoluto ma chirurgico, in grado di rimuovere il tessuto incancrenito della Storia (o di una storia) per migliorare le prospettive sul futuro. Ecco, Charlie Kaufman dev’essersi appellato a un’utopia piuttosto simile quando ha scritto Eternal Sunshine of the Spotless Mind, pur applicandola alla sfera intimista delle pene d’amore. In fondo si tratta di una soluzione comoda: sradicare dalla memoria la persona amata (e perduta) per evitare di soffrire. Ma Kaufman e Michel Gondry sono autori spietati: parlano direttamente alla testa, al cuore e alla pancia del pubblico, toccando anche i nervi scoperti dei nostri sbagli ricorrenti. Siamo creaturine ostinate, sembrano dirci i due cineasti, e l’eterno ritorno dei nostri fallimenti è un gorgo cui non si può sfuggire.

La fortuna di Eternal Sunshine of the Spotless Mind – che in queste righe non sentirete mai nominare con lo sciagurato titolo italiano – deriva proprio dalla sua capacità di farsi “universale”, in un modo o nell’altro. Non perché ci si debba necessariamente identificare con Joel o Clementine, ma perché universale è la danza dei sentimenti che scuote la loro relazione, insieme allo sguardo ambivalente sull’amore. È proprio quell’eterno ritorno che citavo prima: dall’entusiasmo amoroso si passa al disincanto, alla noia, alla stanchezza, per poi tornare indietro non appena s’incontra una persona nuova… o si cancella il ricordo del proprio partner. Eternal Sunshine è un film dolcissimo e crudele allo stesso tempo, e rivederlo oggi (quindici anni dopo la sua uscita americana) è ancora più significativo, poiché suscita una reazione direttamente proporzionale all’esperienza del pubblico. Si finisce per amare profondamente Joel e Clementine per il loro legame, ma anche per odiarne il risentimento reciproco, il livore di tutto quello che si rinfacciano al termine della relazione; perché lo possiamo capire, ci siamo passati, e anche noi avremmo voluto dimenticare.

Eternal Sunshine of the Spotless Mind

Molto prima che la gender fluidity diventasse un tema di risonanza popolare, Joel e Clementine metabolizzano alcuni tratti sia del maschile sia del femminile, sparigliando le carte sul tavolo dei rapporti emotivi. Clementine sembra in tutto e per tutto una manic pixie dream girl, il sogno di qualunque uomo sensibile, ma in realtà ne incarna la parodia autocosciente: «Troppi uomini pensano che io sia un’idea, o che possa completarli, o che possa riuscire a ridargli la vita… ma io sono solo una ragazza incasinata che cerca la sua pace mentale». Non a caso, Joel la visualizza come un’idea per gran parte del film, quando la trascina da un ricordo all’altro per evitare che i tecnici della Lacuna Inc. la rimuovano dalla sua mente. Eppure, quella non è la vera Clementine, bensì un’astrazione, ricostruita sulla base della memoria condivisa. È qui che Michel Gondry esprime al meglio il suo grande talento: i ricordi sono un labirinto senza pareti, dove il regista francese ci toglie ogni punto di riferimento e sfrutta una combinazione raffinatissima di trucchi (sia on camera sia digitali) per trasmettere l’inaffidabilità della memoria, con i suoi contorni sfumati e impercettibili.

Di base, però, c’è sempre un’autonarrazione che oggi, a tre lustri di distanza, si è fatta ancora più ossessiva. Kaufman e Gondry cercano infatti la chiave della sofferenza emotiva proprio nella rappresentazione di sé come parafulmine di ogni sventura, nel fondamentale (e forse inevitabile) egotismo che caratterizza chiunque soffra per amore. La decisione stessa di “dimenticare” tiene conto solo del proprio benessere, senza considerare gli effetti sul partner. Il disperato individualismo di entrambi i personaggi (Joel con il suo narcisismo malinconico, Clementine con la sua presunzione scriteriata) si scontra però con l’esigenza viscerale dell’altro, in cerca di un’intesa fisica e mentale. È per questo che li amiamo nella tenerezza dei loro momenti migliori, e li detestiamo quando sprecano tutto per questioni risibili.

La determinazione a ritrovarsi nella tempesta dei ricordi, però, dimostra che persino nella reiterazione degli errori c’è qualcosa da salvare. Per quanto egoisti e autocompiaciuti, il racconto che facciamo di noi stessi non avrebbe alcun valore senza i legami che stringiamo, perché la nostra formazione di individui pensanti nasce anche da quello. Jim Carrey e Kate Winslet ne portano i segni sul viso per tutto l’arco del film, toccando un livello di interiorizzazione che si è visto raramente nel cinema degli anni 2000: nel loro dolore c’è una bellezza struggente, la stessa che stregò Gondry prima delle riprese, quando la vide affiorare sul volto di un Jim Carrey realmente straziato da una delusione amorosa. Forse è per questo che amiamo tanto Eternal Sunshine of the Spotless Mind: nei suoi deliri c’è una verità lancinante, quasi fastidiosa e sconveniente per la precisione con cui ci legge dentro. Magari non potremo dimenticare, magari siamo condannati anche noi a rincorrerci all’infinito come Joel e Clementine nella scena finale, ma non possiamo rinunciare a provarci. Quelle orme sulla neve sono fatte per essere calpestate.

Eternal Sunshine of the Spotless Mind

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