Nelle sue numerose declinazioni cross-mediali, anche il racconto supereroistico cerca una varietà di forme e registri che gli permettano di sopravvivere alla saturazione del mercato. Di conseguenza, le innovazioni provengono spesso dagli sguardi alternativi, fuori dai circuiti mainstream: è il caso di The Umbrella Academy, il fumetto di Gerard Way e Gabriel Bá che ha spiazzato i lettori alla fine dello scorso decennio, giunto in Italia solo di recente grazie a Bao Publishing. Leggere i volumi della serie è un’esperienza piacevolmente straniante, poiché i due autori filtrano i tópoi visivi e narrativi dei supereroi attraverso uno sguardo indie, ignorando certe regole di base per lavorare in un clima di apparente anarchia. Il discorso non riguarda solo gli spunti surreali o grotteschi (evidenti già nel character design), ma anche l’approccio anti-didascalico, pieno di ellissi e salti temporali. Veniamo scaraventati senza alcun preavviso in un ciclone di avventure folli, personaggi bizzarri e superpoteri incomprensibili, ma ben presto cominciamo a fare i nostri collegamenti e apprezziamo la coerenza dell’intreccio, i rimandi interni e la natura conflittuale dei protagonisti.
Trarne una serie in live action significa prendersi una grossa responsabilità, ma le produzioni targate Netflix – che lancerà la prima stagione il 15 febbraio – hanno già dimostrato una notevole libertà creativa, nonché l’attitudine a rileggere i generi nei modi più insoliti. A tal proposito, lo showrunner Steve Blackman compie molti sforzi per agevolare la traduzione del fumetto sul piccolo schermo, puntando sulla riorganizzazione e sulla razionalizzazione della materia originale, pur cercando di mantenerne intatto lo “spirito”. Il risultato è The Umbrella Academy, potenziale nuovo cult della piattaforma on-line.
Il giorno 1 ottobre del 1989, ben 43 bambini nascono in diverse parti del mondo da donne che, fino a un momento prima, non avevano mostrato alcun segno di gravidanza. Il miliardario Sir Reginald Hargreeves (Colm Feore) riesce a rintracciarne sette, e li adotta per uno scopo preciso: addestrarli a diventare supereroi, in modo che un giorno possano salvare il mondo. “Da cosa?” si domanda l’opinione pubblica, ma Hargreeves non fornisce spiegazioni. L’uomo è freddo e anaffettivo, sembra avere a cuore solo la sua “missione”, e chiama i sette bambini – cinque maschi e due femmine – con i relativi numeri. Ognuno di essi è dotato di una particolare abilità sovrumana: Luther / Numero 1 (Tom Hopper) ha una forza straordinaria; Diego / Numero 2 (David Castañeda) può controllare la traiettoria degli oggetti che lancia; Allison / Numero 3 (Emmy Raver-Lampman) può influenzare la volontà altrui con la propria voce; Klaus / Numero 4 (Robbie Sheehan) può comunicare con i defunti; Numero 5 (Aidan Gallagher) può spostarsi nello spazio e nel tempo; mentre Ben / Numero 6 (Ethan Hwang) può scatenare dei mostri da un’altra dimensione. L’eccezione è rappresentata da Vanya / Numero 7 (Ellen Page), che non ha “niente di speciale” e quindi viene esclusa dalla squadra, pur essendo allevata da Hargreeves insieme agli altri.
La Umbrella Academy compie molte imprese ai quattro angoli del globo, almeno finché i membri del gruppo sono ancora piccoli. Crescendo, la maggior parte di loro prende una strada autonoma, stanca della durezza paterna. Ben muore, e nel giardino di casa Hargreeves viene edificata una statua in suo onore. Numero 5 sparisce nel nulla dopo un litigio con il padre, mentre Allison persegue una carriera da attrice di successo. Klaus si divide tra cliniche di recupero e continue ricadute nella tossicodipendenza, Vanya si dedica allo studio del violino e pubblica un libro in cui racconta la sua storia, suscitando l’ostilità di Diego, che intanto pattuglia le strade come un supereroe clandestino. Luther è l’unico che resta legato a Hargreeves, e viene spedito da quest’ultimo in missione sulla Luna per valutare eventuali minacce.
Quando il ricco magnate perde la vita per cause apparentemente naturali, però, tutti i figli superstiti tornano all’ovile per il funerale. I diffidi personali rendono la convivenza molto difficile, ma un evento inaspettato scuote l’atmosfera: Numero 5 ritorna dal futuro, dove ha trascorso gli ultimi decenni, e il suo corpo è nuovamente quello di un ragazzino. Sulle sue tracce ci sono due terribili sicari, Hazel (Cameron Britton) e Cha Cha (Mary J. Blige), pronti a tutto per ucciderlo. Numero 5, però, ha preoccupazioni ancora più impellenti: sostiene infatti che il mondo stia per finire, e che restino pochissimi giorni prima dell’apocalisse.
Quella “razionalizzazione” di cui vi parlavo in principio è alla base dell’intero adattamento. Blackman e la sua writers room riorganizzano i primi due albi del fumetto per evidenziare i nessi logici e costruire una storia compatta, dove l’intreccio diventi più chiaro dopo ogni colpo di scena: quando si arriva alla fine, ogni personaggio trova il suo posto nella storia, ogni svolta narrativa esercita la sua funzione. Un contributo fondamentale deriva dall’impostazione corale del racconto, più marcata rispetto alla fonte. Nonostante alcuni finiscano inevitabilmente per risaltare sugli altri, i vari protagonisti hanno un peso specifico paritario, almeno in termini di screen time e di impegno per approfondirne i retroscena. Così, il cammino di ogni personaggio risulta influenzato dalla natura dei suoi poteri, dal rapporto con gli altri e dalle responsabilità che gravano sulle sue spalle: nulla è lasciato al caso, poiché l’evoluzione caratteriale e psicologica degli eroi (e degli antagonisti) è coerente con il loro passato. Anche l’espansione dei ruoli di Hazel e Cha Cha risponde alla medesima esigenza.
In tal modo, The Umbrella Academy ritrae compiutamente la problematicità di questi supereroi recalcitranti, che formano una famiglia disfunzionale sul modello de I Tenenbaum, ma con le sfumature avventurose degli X-Men. La presenza di un mentore, dei superpoteri e di una casa/accademia rievoca certamente i mutanti della Marvel, ma il clima familiare fa pensare a Wes Anderson e ai bizzarri rapporti affettivi che spesso il cineasta texano racconta nei suoi film. D’altra parte, come i piccoli Tenenbaum, anche gli Hargreeves crescono privi dell’affetto genitoriale: senza modelli di riferimento, i ragazzi sono abbandonati a loro stessi, devono crescere da soli e inevitabilmente compiono degli errori, pur contando su talenti straordinari. Anche per questo motivo, è piuttosto ovvio che la minaccia finale maturi in seno al gruppo, e sia un frutto involontario dell’anomala educazione cui sono stati sottoposti, con le conseguenti lacune affettive.
La figura di Vania, in particolare, interiorizza i conflitti della famiglia in una maschera dolente e malinconica. Marginalizzata per tutta l’infanzia, costretta a sentirsi banale in un contesto eccezionale, Vania incarna la metafora manzoniana del “vaso di coccio in mezzo a tanti vasi in ferro”, e vaga smarrita fra l’indifferenza, l’ostilità o la condiscendenza dei fratelli, a seconda dei casi. Anche Klaus, l’altro paria del gruppo, ha una tragicità di fondo che lo rende commovente: la sua tossicodipendenza cela il desiderio di sottrarsi alla persecuzione dei defunti, stordendosi continuamente o nascondendo i suoi problemi dietro l’ironia. Seppure con livelli d’intensità diversi, comunque, ogni personaggio vive conflitti sfaccettati e verosimili, acquisendo uno spessore che si riverbera lungo tutto l’arco narrativo della serie.
I limiti di The Umbrella Academy sono connessi al mezzo stesso, e soprattutto alle carenze di budget che impediscono di riprodurre fedelmente le invenzioni di Gerard Way e Gabriel Bá. Non c’è dubbio che lo show sia più convenzionale se paragonato al fumetto, ma si muove anche in un contesto produttivo ben più rigido e complicato, quindi le giustificazioni non gli mancano. Meno anarchica e grottesca della sua fonte originale, la serie compensa parzialmente grazie all’azione ipercinetica e parossistica, coreografata con cura e diretta in modo professionale. Il valore aggiunto, però, è la colonna sonora: ogni scontro è accompagnato da un classico moderno o contemporaneo della musica pop/rock, e se talvolta le scelte dei brani sono un po’ scontate (come nell’utilizzo di Run Boy Run), gli abbinamenti imprimono sempre una certa personalità alle sequenze d’azione, rendendole vibranti e scanzonate.
Pur sacrificando parecchio, insomma, The Umbrella Academy riesce a conservare buona parte del suo carattere libero e guascone, che la rende una validissima alternativa agli universi dominanti targati Marvel e DC. A questo proposito, lo show s’impone come un esempio a tutto tondo della Modern Age supereroistica: lo spirito indipendente e il revisionismo applicato alla figura del supereroe disegnano un ritratto magmatico, dove l’interiorità psicologica conta più dei superpoteri (o, quantomeno, le due cose sono intimamente legate), e l’eroismo è una casualità o un’imposizione, più che una reale vocazione.
Se diventasse un altro piccolo cult, non ci sarebbe da stupirsi.
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