ScreenWEEK Originals netflix StreamWeek
Nel 2017, in apertura del festival di Cannes, scoppiò una delle polemiche più stupide di sempre. L’argomento del contendere erano due pellicole presentate durante il festival da Netflix: Okja di Bong Joon-ho e The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach. I film furono fischiati perché non erano considerati candidabili in quanto non erano mai passati per le sale cinematografiche. La contesa tra Netflix e Cannes si è conclusa con l’esclusione dai premi dei film prodotti dalla piattaforma di streaming e con il trucco più ridicolo del mondo: Netflix ha iniziato a organizzare per i suoi film delle “limited theatrical release” il che significa che i film passano per poco in poche sale per guadagnarsi il blasone di film cinematografici. Molto meno sensibile sull’argomento invece sono parse Venezia, che ha premiato con il leone d’oro Roma di Alfonso Cuarón, e l’Academy che candida a svariati premi, sia Roma che The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen. Sebbene la diatriba dall’esterno possa appunto sembrare futile, la battaglia degli esercenti lo è di meno e i proprietari dei cinema cercano solamente di salvaguardare le sale dall’assalto dei prodotti di Netflix. Ma la domanda a cui vogliamo rispondere in questo articolo è un’altra e cioè: i film prodotti da Netflix sono diversi da quelli destinati alle sale? La mia risposta istintiva è che, no, non lo sono. Anche perché la maggior parte di questi ha trovato nella piattaforma di streaming l’unica possibile via di distribuzione, penso proprio ai due candidati agli oscar: un film ad episodi e un lungo dramma in bianco e nero ambientato in Messico e recitato in spagnolo. Sono entrambe pellicole difficili da piazzare nel circuito cinematografico, ma che riescono a trovare il loro successo con un pubblico più selezionato e (sostanzialmente) non pagante di Netflix. Poi ci sono anche casi di film che al cinema ci dovevano andare fino a poco prima della fine delle riprese, penso ad Annientamento di Garland, o al terzo capitolo della saga di Cloverfield. Entrambi sono film pensati per il cinema, ma ritenuti troppo deboli dalla distribuzione ordinaria. Il terzo tipo di film è quello dei veri e propri originali, pellicole pensate per il piccolo schermo che, effettivamente, non mi pare abbiano molto a che fare con un mezzo diverso come il cinema. Tutti i film possono essere riprodotti su un televisore, ma un film pensato per il cinema ha, secondo l’opinione di chi scrive, una scala e una visione diverse. O almeno dovrebbe. Detto questo, parlando invece della qualità dei film prodotti da Netflix, devo dire che l’ultimo anno ha portato a un sostanziale cambio di passo, le produzioni hanno aumentato di molto la qualità media e ora, con gli oscar alle porte, mi pare un buon momento per cercare di stilare una lista dei migliori e peggiori film prodotti dalla casa americana.
5. Bright
Devo essere sincero, Bright finisce in questa classifica più per il paragone tra la sua mole produttiva e i suoi risultati in fatto di ricezione del pubblico e della critica, piuttosto che per un vero e proprio demerito nella messa in scena. Infatti Bright, un fantasy metropolitano in cui le classiche razze che popolano i libri del genere sono calate in un contesto urbano e moderno, non è un film detestabile. Anzi, devo dire di essermi goduto parecchie scene e che ci ho riconosciuto la mano e l’occhio di uno come David Ayer che aveva già dato ottima prova di sé con pellicole come End of Watch e Fury, il problema del film risiede in una sceneggiatura che prende un buono spunto e lo maltratta infilando uno dietro l’altro dei nonsense narrativi, facendo sfilare davanti allo spettatore colpi di scena forzati e deus ex machina tanto sfacciati da far venire l’orticaria. Bright, a differenza del suo nome, non è un film brillante, piuttosto uno stupidotto tozzo e sgraziato quanto un orco.
4. Bird Box
Capisco il tentativo, davvero. Non penso i produttori del film abbiano avuto una brutta idea, hanno visto A Quiet Place e hanno immediatamente pensato: l’idea è vincente e permette di girare con due spicci un film che sembra decisamente più grande. Hanno probabilmente chiamato un povero stagista, con il compito di trovare qualcuno che gli scrivesse e girasse A Quiet Place, solo che diverso. Ma non diverso, diverso, mi raccomando. Il risultato è un film con protagonista Sandra Bullock, che continuo a dire che è una delle più grandi truffe di Hollywood, che interpreta una madre a spasso per un mondo post-apocalittico in cui, invece di non poter parlare, i sopravvissuti non possono guardare. Il film è di una noia mortale, che so non essere proprio una categoria critica, ma dio santo quanto lungo mi è sembrato! E finisce per non capire nulla della lezione del suo predecessore risultando, nella migliore delle ipotesi, una copia sbiadita dell’originale.
Vi giuro che è una vera pena per me infilare questo film nella lista dei peggiori usciti su Netflix perché Lo Sciacallo, il film precedente di Dan Gilroy, che vedeva ugualmente Jake Gyllenhaal, era un film eccezionalmente disturbante, intelligente e decisamente gratificante per un pubblico alla ricerca di qualcosa di diverso rispetto al solito. Il problema di questa nuova fatica del regista è che se il primo film riusciva ad essere costantemente in equilibrio tra follia e lucida trasgressione, la storia di Morf Vanderwalt, critico d’arte di Los Angeles, finisce per essere un orribile emulo dello stile di Dario Argento. La sottotrama horror/splatter, finisce per prendere il sopravvento sul film, e farlo sembrare, purtroppo per Gilroy, un “vorrei ma non posso” The Neon Demon di Refn. Mi spiace per il tentativo andato a vuoto, perché le intenzioni del film si vedono tutte, ma sono tutte sprecate, come sprecato è un John Malkovich che sembra davvero essere passato per sbaglio sul set un paio di giorni.
2. Mute
Duncan Jones nel 2009, con il suo piccolo e geniale primo film, Moon, si era candidato come astro nascente del cinema di genere americano. La sua seconda pellicola, Source Code, sembrava confermare il suo talento anche catapultato in una dimensione più hollywoodiana. Poi c’è stato quel brutto disastro di Warcraft che si è abbondantemente ripagato, anche grazie a incassi da record sul mercato cinese, e poi infine è arrivato il suo progetto per Netflix, Mute. La nuova dimensione assomigliava molto a quella di partenza, budget ridotto e assoluta libertà espressiva. Dopo tutto i film indie che tanto piacciano al Sundance, non sono molto diversi dai film tv (non penso sia un caso che quest’anno le piattaforme di streaming, al festival abbiano comprato diritti come un ciccione a un buffet), quindi qual è stato il risultato finale? Mi spiace dirlo, ma il thriller fantascientifico girato da Jones è un pasticcio posticcio in cui l’ambientazione fantascientifica poteva essere serenamente cambiata con una a caso senza che il film ne risentisse. La storia del barman sordomuto e del cattivo chirurgo da mercato nero, suona più promettente sulla carta che nella realtà. E anche sulla carta pareva un brutto pasticcio.
Cloverfield Paradox è una truffa, un gioco di prestigio per cui un direttore marketing si è sicuramente meritato una promozione. Analizziamo i fatti: la produzione del film prende un budget da quarantacinque milioni di dollari e probabilmente lo spedisce, come gli astronauti protagonisti della pellicola, in un’altra dimensione dove nessuno può sentirli gridare. Poi, con i pochi spiccioli rimasti mette su un film di fantascienza di serie C, girato in soli interni che, a confronto, le peggiori produzioni del canale SyFy sono 2001: Odissea nello Spazio. Naturalmente la distribuzione cinematografica, visto il film, risponde con una sonora pernacchia alle richieste della casa di produzione, ma è a quel punto che entra in gioco Netflix e la migliore/peggiore campagna marketing del secolo. Infatti durante il Super Bowl, passa il trailer del film, facendo attenzione a non far vedere praticamente nulla, che ci informa che Netflix si è riuscita ad aggiudicare in esclusiva il terzo capitolo di una saga che, chi ha visto Cloverfield e 10 Cloverfield Lane, sa già essere una non-saga, ma un paio di film distanti anni luce l’uno dall’altro e accomunati dal solo titolo. Il pubblico e le fonti di informazione, invece di spernacchiare l’evidente supercazzola, si alza in piedi e applaude, fremendo per l’attesa. La sensazione finale, dopo aver visto il film, finisce per essere pericolosamente vicina a quella che si prova quando perdi al gioco delle tre carte davanti alla stazione di Napoli: sei arrabbiato con il tipo perché ti ha fregato e un po’ con te stesso perché lo sapevi che stavi per essere ingannato.
5. Apostolo
Apostolo arriva a quattro anni dall’ultimo film di Gareth Evans, regista gallese partito per l’Indonesia per realizzare due dei film che hanno completamente ridefinito il genere action. Se siete dei miscredenti che ancora non hanno visto The Raid e The Raid 2, smettete di leggere questa classifica e tornate solo quando sarete degni. Se invece siete nel giusto, sappiate che Evans con Apostolo dimostra di avere un’incredibile capacità registica anche oltre al genere che l’ha consacrato, confezionando un horror violento e angosciante che vi leverà il sonno per più di una notte. È il 1905 e Thomas Richardson (interpretato da uno straordinario Dan Stevens) ritorna a casa dopo una lunga assenza solo per scoprire che la sorella è tenuta ostaggio da una setta religiosa su un’isoletta a largo della costa. Thomas si infiltra nella congregazione fingendosi un fedele, in cerca di notizie sulla sorella. Dal primo passo sulle coste rocciose dell’isola, la storia è una lenta discesa nell’incubo. Evans riesce a mantenere una tensione costante, a stringere le budella dello spettatore con un’angoscia palpabile, pesante che schiaccia. Apostolo è una storia macabra, truculenta e malata e sfocia in uno strano, eppure perfettamente in tono con il resto della narrazione, finale che vi lascerà frastornati.
L’ultimo film di Steven Soderbergh si inserisce in quello strano genere che sono i film sportivi in cui lo sport non si vede, mi vengono in mente Moneyball di Aaron Sorkin e Draft Day di Reitman. High Flying Bird è un film che parla dello sciopero che qualche anno fa fecero i giocatori NBA per chiedere compensazioni più eque. Eppure, per chi conosce il lavoro di Soderbergh, per chi conosce la sua lotta per uscire dal circuito Hollywoodiano, per cercare distribuzioni alternative, è chiaro anche come Ray Burke, il procuratore al centro delle vicende del film, sia un po’ anche il regista. Ma tranquilli, la metafora, il duplice significato della trama, non influisce su quella principale, High Flying Bird è uno di quei film in cui i personaggi si sfidano in veri e propri duelli dialettici, schermaglie in cui si sfidano a essere uno più sagace dell’altro. E per fortuna, sia la sceneggiatura, scritta da Tarell Alvin McCraney (Moonlight), che le interpretazioni di tutto il cast, da un carismatico André Holland a una bravissima Zazie Beetz, riescono a mantenere sempre alti i ritmi di una narrazione inarrestabile.
3. Private Life
Ogni volta che Netflix ha provato a produrre film grandi, cinematografici, i flop sono stati pesanti, qui su ne potete vedere qualche esempio (Bright su tutti). Invece è probabile che la giusta via sia quella provata con Private Life il primo film davvero compiuto della piattaforma. Non è un film ad alto budget, ma uno che grazie alle sue interpretazioni, alla cura per la fotografia e a una regia, a una sceneggiatura che è attenta a ogni più piccolo dettaglio che è consapevole dei propri mezzi, finisce per essere un perfetto film da Sundance. Uno di quelli che magari il festival lo vince anche. Il film segue i tentativi di una coppia di avere un figlio, prima con la fecondazione assistita, poi con un utero in affitto e anche passando per un tentativo di adozione. La lunga epopea che vivono i due ne mina alle fondamenta la relazione e l’eccesso d’ira che colpisce Paul Giamatti , che interpreta un uomo di cultura, uno che anche quando perde le staffe non riesce ad essere maleducato e volgare, ci da un’idea dell’estrazione culturale del pubblico a cui si rivolge per forza di cose un film del genere. E anche della bravura di Giamatti. Tamara Jenkins (La famiglia Savage), scrive e dirige un film praticamente perfetto, intimo e commovente, ma mai doloroso in maniera scenografica, le disavventure della coppia di protagonisti sono vere e quotidiane, incredibilmente umane.
2. La Ballata di Buster Scruggs
La Ballata di Buster Scruggs è un’antologia western in sei episodi, uno più feroce del precedente, uno più “Coen” dell’altro. Il marchio di fabbrica della coppia, un’ironia tagliente e nera, è presente nel loro ultimo lavoro ed è declinata in varie meravigliose tonalità di nera disperazione per descrivere l’orrore di vivere in un posto infame e crudele come la frontiera americana. Il film omaggia il genere essendo, come prima cosa, il meglio del genere stesso. Non ricordo molte scene di un assalto potenti come quella del quinto episodio (né un finale tanto amaro se è per questo). Né di aver mai visto qualcosa di tanto crudele e commovente come la vicenda che, nel secondo episodio segue un impresario (Liam Neeson) e la sua attrazione, un ragazzo senza braccia e gambe con un incredibile talento per recitare Shakespeare. La fotografia in digitale che caratterizza il film, i colori slavati, non fanno che aggiungere un aspetto plumbeo e malinconico a tutta la narrazione. Come dicevamo in apertura il lavoro dei Coen difficilmente avrebbe raggiunto la distribuzione cinematografica, raramente ormai lo fanno i film a episodi, quindi se volete aggiungere punti a tabellino per le piattaforme di streaming, questo è il momento.
1. Roma
Chiunque avesse un minimo di gusto, sapeva che Alfonso Cuarón era uno dei migliori registi in circolazione. Lo sapeva anche quando era a lavoro su pellicole commerciali e di genere da I figli degli uomini, passando per un terzo capitolo di Harry Potter (che ha sempre brillato di una luce diversa dal resto della saga) per arrivare alla perfezione della messa in scena di un film come Gravity. Proprio conoscendolo difficilmente ci si sarebbe aspettato da lui un terzo film in bianco e nero, in spagnolo, con un approccio molto felliniano. Tutto messo al servizio di una storia sui conflitti sociali ed economici, la storia di Cleo, una donna delle pulizie che diventa il simbolo dell’umiltà, ma anche della resistenza di un popolo. Il film riesce nell’impresa di essere incredibilmente personale e ad avere ugualmente un respiro universale, un’anima politica perfettamente sposata a una fotografia e una regia da grande film d’autore.
Vi invitiamo a seguire il nostro canale ScreenWeek TV. ScreenWEEK è anche su Facebook, Twitter e Instagram.