Andate a vedere Il Primo Re

Andate a vedere Il Primo Re

Di Roberto Recchioni

Mi sono preso il mio tempo per recensire Il Primo Re di Matteo Rovere e l’ho fatto per due motivi.

Il primo è che non volevo che l’entusiasmo per un film italiano coraggioso sotto ogni punto di vista mi influenzasse troppo positivamente nel giudizio finale o che, al contrario, proprio per paura di lasciarmi prendere la mano in senso benevolo, non mi ritrovassi a essere troppo severo per dimostrare la mia onestà intellettuale. Il secondo motivo è che il film è meno facile di quanto si potrebbe pensare e ho avuto bisogno di vederlo due volte per sciogliere alcuni nodi che mi erano rimasti al termine della prima visione.

Ma ora ci sono.

Rapidamente, la trama: il mito fondativo di Roma. Romolo e Remo, due fratelli portati dal fiume, che da schiavi diventano liberatori e poi, Re. Almeno, uno di loro.
Alla regia, Matteo Rovere (regista e produttore su cui torniamo dopo), coadiuvato dalla splendida fotografia di quel talento assoluto di Daniele Ciprì. Davanti alla camera, una pletora infinita di uomini nudi (era dai tempi di 300 che il cinema non offriva un così gran numero di “manzi” a schermo, tutti ) e poche (ma bravissime) donne. Nel cast, ovviamente, spicca Alessandro Borghi, che interpreta il ruolo di Remo ed è il protagonista assoluto della pellicola (con uno screentime da record). Alla scrittura, oltre allo stesso Rovere, altri due suoi stretti collaboratori: Francesca Manieri, Filippo Gravina. Produce Groenlandia (la casa di produzione di Rovere e Sydney Sibilia), Gapbuster, VOO, BeTV e, soprattutto, Rai Cinema. Distribuisce 01 (sempre la Rai).

La pellicola è costata, pare, otto milioni di euro (ma c’è chi dice qualcosa di più) ed è uno dei più grossi investimenti italiani recenti. E questo già si vede nei primi minuti del film, che si apre con una scena degna di una grande produzione americana, realizzata con effetti assolutamente all’altezza delle ambizioni: il Tevere che esonda e trascina via tutto quello che trova sul suo cammino, compreso un gran numero di pecore e due pastori nomadi, due fratelli, chiamati a un appuntamento con il destino.

Prima di andare avanti a tessere le lodi al film, sgomberiamo il campo da una questione: Il Primo Re non è un film perfetto in ogni sua parte.

Lo script ha qualche problema di pesi e se il primo atto è assolutamente trascinante e si conclude in maniera epica, la parte centrale del film (quando diventa una sorta di Macbeth dell’età del ferro) si dilunga troppo e appare più incerta nella direzione da prendere, facendoci arrivare un poco scarichi ad un finale che è già noto (la storia quella è, alla scrittura non c’è Tarantino che se ne frega e la cambia). Inoltre, c’è un problema sui personaggi, con Romolo che esce troppo tardi nell’economia del film e non ha il tempo per farsi conoscere (e amare) dal pubblico. Infine, per quanto Rovere sia un regista bravissimo, dotato di occhio e tecnica, nel suo cinema si rintracciano ancora con troppa facilità i suoi modelli di riferimento, che appaiono più omaggiati e citati che, organicamente, assorbiti e fatti propri. Questo è un “difetto” che si avverte anche nei film del suo socio Sydney Sibilia, stemperato però dal fatto che Sibilia lavora nel campo della commedia post-moderna, in cui questo tipo di rimandi funziona senza disturbare e, anzi, fa parte del gioco.
Rovere, invece, cerca di trascinarci in un contesto epico e viscerale, e il fatto che troppo spesso, guardando una scena de Il Primo Re, ce ne venga in mentre un’altra, di un altro film, finisce per strapparci dal flusso drammatico della narrazione.

Quindi, tra un combattimento alla Michael Mann e il suo Ultimo dei Mohicani, un accoltellamento al rallentatore alla Steven Spielberg di Salvate il Soldato Ryan, una foresta alla Alejandro Iñárritu (senza i suoi pedanti piani sequenza, grazie al cielo), una spolverata di neve-polline alla Ridley Scott del Gladiatore e delle Crociate, un cadavere appeso in stile Predator di McTiernan, e con badilate di riferimenti al Valhalla Rising di Nicola Winding Refn e alla serie televisiva di Vikings, si può fare l’errore di pensare che, più che davanti a un’opera genuinamente autoriale, ci troviamo alle prese con il giocattolo, troppo a lungo desiderato, di un nerd.


Ma sarebbe un errore pensarla così.

Perché, sì, Rovere è probabilmente un nerd di un certo tipo di cinema americano, un professionista che ha inseguito per anni un sogno a cui è riuscito ad arrivare solamente perseguendo un percorso obliquo rispetto al suo desiderio ultimo. Si è dovuto costruire la reputazione di regista solido e pratico, Matteo, uno senza troppi vezzi, capace di confrontarsi con il mercato italiano e vincerlo. Si è persino fatto (bravo) produttore per dimostrarlo. Ma un passo alla volta, un film alla volta, si è sempre avvicinato di più al “suo cinema” e ora che è arrivato a questo Primo Re, non si può negare che ha trovato una voce autoriale che, nel cinema italiano, è unica.
E sì, i rimandi ci sono. Ma sono pure amalgamati in un tessuto che non è per nulla derivativo, che non è per nulla semplice e che, soprattutto, non è per nulla scontato.

E ora passiamo a parlare di tutto quello che nel film funziona.

Prima di tutto, l’idea di cinema che c’è dietro, ovvero di un linguaggio che si esprime, prima di tutto, attraverso le immagini in movimento. È una concezione cinematografica che ha padri illustri (Hitchcock, Truffaut, Godard, Peckinpah, Friedkin, Hill, Scott, Mann, Gibson, Refn, Miller, Nolan… tra i tanti) e che, per me, rappresenta la quintessenza stessa del medium cinematografico. Un’idea di racconto che può esistere solo, ed esclusivamente, nel cinema e per il cinema e che non ammette null’altro. Tanto è vero che nel film si parla poco e, quel poco che si dice, viene detto in un protolatino che ha bisogno dei sottotitoli per essere compreso (alla maniera di Apocalypto, a proposito di riferimenti). Il cinema nella sua forma più pura, senza compromessi. Già solo l’idea di investire così tanto (sul piano personale e su quello economico) per realizzare una pellicola del genere, è motivo di ammirazione. Se poi questa idea la sviluppi anche bene, come ha fatto Matteo, c’è proprio da fare festa. Ma, intendiamoci: Il Primo Re non è un film privo di contenuti e di temi, eh? Ci sono e sono anche ambiziosi e importanti.

C’è, ovviamente, il racconto dell’amore fraterno.

C’è un discorso sul potere e uno sulla pietà.

C’è, soprattutto, una riflessione profonda sul concetto di Dio e sul rapporto che l’uomo ha con lui.
E c’è il racconto, difficile e per nulla banale, di un tempo in cui il naturale e il fantastico (o divino) convivevano in maniera brutale ma armonica.
Solo che questi temi, invece che essere veicolati dalle parole, lo sono dalla forza delle immagini. In questo senso, un grande apporto viene dato dal lavoro, semplicemente straordinario, di Daniele Ciprì (che, lo dico senza paura di essere smentito, è il miglior direttore della fotografia italiano, al momento), capace di inquadrare con rara lividezza l’altrettanto eccezionale lavoro fatto da Tonino Zera alle scenografie e da Valentina Taviani ai costumi.

E poi c’è il cast. Composto da alcune facce note del nuovo cinema italiano ma anche da tanti esordienti o quasi tali. Tra di loro spiccano l’intensità di Tania Garribba e la strabordante fisicità di Michael Schermi. A dominare tutti c’è un Alessandro Borghi semplicemente fuori scala, chiamato a una prova attoriale difficilissima (che vince a mani basse) e dotato della stessa selvaggia bellezza ferina e intensità di Giancarlo Giannini in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, ma con un livello di epico eroismo in più. Meno convincente (ma più per demerito dello script che suo) Alessio Lapice, nei panni di Romolo.
Ottimo anche il sound design e la colonna sonora, che si mescola diegeticamente con i suoni della natura.

In conclusione, Il Primo Re, al netto del mio entusiasmo per un cinema italiano che non c’era e che adesso c’è, è un grande e importante film che merita di essere visto in sala.

Ora.
In questi giorni.
Subito.

Perché non basta fare i social warrior indignati e lamentarsi di non avere una cinematografia interessante in Italia. Bisogna pure alzare il culo e spendere qualche euro per sostenere quei film che non solo ci provano con coraggio, ma che ci riescono.
E perché è davvero un ottimo film.

Illustrazione esclusiva di Roberto Recchioni

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