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True Detective riparte dalle basi: la recensione in anteprima della stagione 3

Pubblicato il 02 gennaio 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Quella tra Nic Pizzolatto e gli spettatori è una battaglia che si riverbera su ogni incarnazione di True Detective, dimostrando quanto lo sceneggiatore americano sia sensibile alle critiche della stampa e del pubblico: di conseguenza, se la seconda stagione era frutto delle accuse di sessismo piovute sulla prima, la terza nasce invece dalla pessima accoglienza che è stata riservata alla seconda, peraltro contestata e screditata ben oltre i suoi reali demeriti. Non è certo un caso che Pizzolatto abbia voluto meditare a lungo prima di riproporre lo show, e l’esito finale – stando ai cinque episodi che ho potuto vedere in anteprima – è palesemente condizionato dalle sopracitate reazioni di dissenso.

Se pensiamo alla seconda stagione, la sua unica “colpa” è stata quella di stravolgere l’ambientazione e il sistema dei personaggi per cercare strade nuove, scegliendo inoltre una vittima con cui fosse difficile empatizzare, e puntando più sulle diramazioni politico-sociali che sulla morbosità dell’omicidio. Il pubblico però gli si è rivoltato contro, quindi Pizzolatto è tornato sui suoi passi: la terza stagione recupera molti elementi della prima, riducendo il numero di protagonisti “attivi” e optando nuovamente per un contesto rurale, anche se stavolta la trama si svolge sull’altopiano d’Ozark, in Arkansas, e copre ben tre livelli temporali. Nel 1980, gli annoiati detective Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff) cominciano a indagare sulla scomparsa di due bambini, fratello e sorella, che si sono allontanati in bicicletta e non sono mai tornati a casa. I loro genitori (Scoot McNairy e Mamie Gummer) hanno problemi di alcolismo e di droga, ma i detective scoprono un intreccio ben più oscuro che potrebbe coinvolgere i bambini. Nel frattempo, Wayne allaccia una relazione con la maestra Amelia Reardon (Carmen Ejogo), che diventa sua moglie e scrive un libro su questo mistero. Attraverso l’alternanza dei piani temporali, veniamo a sapere che le indagini non restano confinate agli anni Ottanta, ma proseguono sia nel 1990 sia nel nostro presente, quando un Wayne ormai anziano e debilitato viene intervistato da una documentarista che si sta occupando del caso.

Chi ha visto la prima stagione di True Detective ritroverà alcuni dei suoi principali tópoi narrativi, a cominciare dalla coppia di investigatori, nonostante la focalizzazione sia concentrata quasi per intero su Mahershala Ali, vero trait d’union fra le tre epoche in cui si dipana la vicenda. Da questo punto di vista il meccanismo è sostanzialmente identico alla prima stagione, ma l’aggiunta di un terzo piano temporale rende più complessa la stratificazione del racconto: attraverso un sapiente lavoro di montaggio – che spesso usa transizioni repentine, basate su diversi collegamenti sensoriali e metaforici – seguiamo le tre linee in parallelo, mentre i copioni rifiutano qualunque didascalismo e ci obbligano a ricostruire gli eventi del passato per attribuire un significato al presente. Pizzolatto delinea l’evoluzione psicologica dei detective con buona cura, ma non riesce ad attribuire loro quella caratterizzazione “forte” che aveva reso memorabili Cohle e Hart cinque anni fa, anche perché i nuovi protagonisti non godono dello stesso screen time. Se il rude Roland West rimane spesso in disparte (e acquisisce sfumature solo quando compare in vecchiaia, a stagione inoltrata), Wayne Hays è più tridimensionale: ha un passato da tracker nell’esercito, e porta sulla coscienza il peso dei nemici uccisi in Vietnam, che saltuariamente gli fanno visita come spettri silenziosi. Le catene della colpa sono però il suo unico tratto davvero caratterizzante, e nemmeno i conflitti con Amelia riescono a estrapolare qualcosa di più profondo, se non il ricorso al sesso come formula di sfogo più che di piacere.

Manca l’ambizione a trascendere la realtà sensibile per proporre una riflessione più ampia, di carattere esistenziale se non metafisico, che valichi la soglia terrena e getti lo sguardo sui misteri di un “altrove”: le elucubrazioni e le allucinazioni di Rust Cohle servivano proprio a questo, e si accordavano all’immaginario esoterico degli omicidi su cui indagavano lui e Marty Hart. Le inquietanti simbologie che circondano il caso dei due bambini, invece, faticano a trovare una sinergia con il resto del contesto. Gli stessi Ozark sono un’ambientazione piuttosto anonima, poiché la regia di Jeremy Saulnier non riesce a tratteggiarne le peculiarità distintive, lasciando trasparire solo a tratti il loro clima opprimente e il degrado del white trash. Ciò non esclude, però, che la trama sia intrigante: lo showrunner centellina sapientemente gli snodi narrativi per ridestare l’attenzione al momento giusto, e toglie ogni punto di riferimento per costringerci a brancolare nel buio, come accade spesso ai detective; le potenziali ramificazioni familiari e religiose, inoltre, rendono l’intreccio ancor più torbido, dimostrando il talento di Pizzolatto nel mettere in relazione il particolare e l’universale.

Se ne ricava l’impressione di un racconto solido, ben concepito nell’alternanza dei piani temporali, ma fin troppo scolastico per il prestigio di True Detective, serie che inizialmente mirava a stravolgere il genere investigativo con i suoi riferimenti filosofici e letterari (per non parlare della sua raffinata costruzione formale, raramente eguagliata sul piccolo schermo). Il valore aggiunto, comunque, sono sempre le performance del cast: Mahershala Ali è strepitoso nel mettere in scena le gradazioni di un uomo che si trasforma nel corso degli anni, risultando credibile anche quando interpreta gli affanni e il disorientamento della vecchiaia, all’interno di uno spettro emotivo molto ampio; e un discorso simile vale anche per Scoot McNairy, attore che si è fatto le ossa in alcune tra le serie tv più importanti del decennio, ed è sempre dotato di una notevole intensità espressiva.

In ogni caso, bisognerà attendere la stagione completa per farsi un’idea più esaustiva. Vi ricordo che la serie debutterà su Sky Atlantic il prossimo 14 gennaio (in contemporanea con gli Stati Uniti) nella versione sottotitolata in italiano, mentre l’edizione doppiata esordirà il 21 gennaio.

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