La rielaborazione del passato, anche recente, è un tema che ricorre in molti prodotti televisivi contemporanei. Che si tratti di un evento storico, di un caso di cronaca o di una temperie socio-culturale, molte serie tv scelgono di rievocare quegli episodi che hanno segnato intere generazioni, meditandoci sopra con una lucidità tutta nuova, garantita dal distacco emotivo e dalla distanza temporale. Certo, i generi e gli argomenti possono variare moltissimo. Ryan Murphy, ad esempio, opta per ricostruire le vicende di O.J. Simpson e Gianni Versace in American Crime Story, mentre Stranger Things dei fratelli Duffer fa leva sulla nostalgia feticista di un’epoca irripetibile, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: filtrare il passato attraverso il setaccio dell’arte, e vedere cosa resta in superficie.
Anche Lorena – docuserie in quattro parti che sarà disponibile su Amazon Prime Video dal 15 febbraio – procede in quella direzione. Dopo ventisei anni, il produttore Jordan Peele e il regista Joshua Rofé depurano il caso Bobbitt della sua morbosità scandalistica, mettendolo in relazione con un discorso ancora più ampio, nonché estremamente attuale. Prima di arrivarci, però, è bene ripercorrere gli eventi nel dettaglio…
La sera del 23 giugno 1993, nella cittadina di Manassas (Virginia), una giovane moglie recide il pene di suo marito con un coltello da cucina, approfittando del fatto che l’uomo stesse dormendo profondamente. La donna si chiama Lorena Leonor Gallo, ha meno di 23 anni ed è nata in Ecuador, mentre lui, John Wayne Bobbitt, è originario di Buffalo ed è più vecchio di tre anni. Dopo aver tagliato il membro del marito, Lorena sale in macchina e getta la parte amputata nel prato di un 7 Eleven, poi si reca nello studio di estetista dove lavora, apparentemente sotto shock, finché non chiama il 911.
Il fallo, trovato da un vigile del fuoco durante le ricerche, viene ricucito chirurgicamente. Intanto, Lorena viene interrogata dalla polizia, alla quale inizialmente dichiara di aver agito per rabbia: reduce da un rapporto sessuale con John, non sopportava che quest’ultimo giungesse all’orgasmo senza aspettarla. Tale deposizione viene però ritrattata a breve distanza, quando l’avvocato di Lorena sostiene che la sua cliente sia stata fraintesa a causa della barriera linguistica: la donna, pur sapendo l’inglese, non lo parla ancora alla perfezione. Nel frattempo i media si scatenano, e la vicenda attrae subito la curiosità del pubblico. A fare scandalo, però, è soprattutto il fatto in sé, più che le sue vere ragioni: ben presto, Lorena racconta di essere stata sottoposta ad anni di abusi da parte del marito, che l’aveva stuprata anche quella sera, dopo essere tornato a casa ubriaco. Dai racconti della donna emerge una realtà di violenze e umiliazioni costanti, rapporti anali non consenzienti, lividi nascosti sotto i vestiti e persino un aborto forzato.
Per questa ragione, il primo a salire sul banco degli imputati è proprio John, ma viene assolto dalla giuria, come accadeva spesso in quegli anni (e non solo) nei processi per molestie sessuali e violenze matrimoniali. Quando tocca a Lorena, la sua difesa parla chiaro: gli abusi hanno spinto la giovane moglie – affetta da depressione e sindrome da stress post-traumatico – ad aggredire il marito come forma di ritorsione, durante un episodio di temporanea infermità mentale. La strategia degli avvocati funziona, e Lorena viene assolta perché vittima di un “impulso irresistibile” a ferire il marito. Dopo 45 giorni in una clinica psichiatrica, è nuovamente una donna libera.
Ovviamente il circo mediatico non si arresta, tutt’altro. John cerca di cavalcare la sua fama, partecipa a una farsesca raccolta fondi di Howard Stern (con tanto di enorme lancetta a forma di membro per indicare la quota raggiunta) e interpreta il protagonista in un film porno dal titolo eloquente, John Wayne Bobbitt: Uncut. La sua popolarità cala gradualmente, mentre ulteriori accuse di molestie piovono sulla sua testa. Lorena, intanto, cerca di ricostruirsi una vita normale: riprende il suo cognome da nubile, comincia una nuova relazione (dalla quale avrà una figlia) e fonda Lorena’s Red Wagon, un’organizzazione finalizzata a prevenire la violenza domestica. John continua a scriverle, sostiene di essere ancora innamorato di lei, ma Lorena – che pure lo ha incontrato in una puntata di The Insider nel 2009 – non ha alcuna intenzione di ristabilire un rapporto con lui.
Nell’attuale clima socio-politico, il caso Bobbit assume una doppia valenza che questa docuserie riesce a esporre in modo chiaro. Jordan Peele e Joshua Rofé non sono interessati soltanto alla ricostruzione dei fatti, ma vogliono metterli in relazione con il nostro presente, dove Lorena Gallo acquisisce contemporaneamente lo status di vittima e oppositrice della cultura patriarcale. Fin dal primo episodio, infatti, Rofé espande il discorso ben oltre le mura domestiche di casa Bobbitt, toccando i nervi scoperti di un’epoca ancor più oppressiva e maschilista, ben lontana dal peso specifico di movimenti come Time’s Up e Me Too. In tal modo, la vicenda s’inserisce nel quadro di un’ingiustizia sistematica, dove lo stupro matrimoniale è considerato indimostrabile, gli aguzzini vengono assolti e le vittime screditate. Intervistando le attiviste militanti (come Kim Gandy della National Organization For Women), Rofé legittima agli occhi delle platee internazionali una realtà che meritava maggior visibilità fin dall’inizio, e che negli anni è stata diluita dai toni morbosi e scandalistici dell’informazione.
All’improvviso, negli uomini balena la consapevolezza di non poterla fare sempre franca, di essere a loro volta delle potenziali vittime persino nel cuore profondo e simbolico della propria virilità. Gli spezzoni con il vecchio monologo di Whoopi Goldberg – intervistata a sua volta nel documentario – sintetizzano efficacemente questo ribaltamento, e destano una lieve amarezza per una “rivoluzione” che ha tardato ad arrivare, ma che nel 1994 sembrava imminente. Suscita una certa sorpresa, per chiunque all’epoca fosse troppo giovane o manchi di memoria storica, assistere a reazioni e manifestazioni pubbliche così simili a quelle cui siamo abituati oggi, con tanto di picchetti fuori dal tribunale e dimostranti che sostengono l’imputata: “Lorena Bobbitt fought back” recitano i cartelli, mentre i cori intonano «Women fight back!». La docuserie ha il merito di rievocare quel clima intenso e vibrante, dove la figura pacata ed esile di Lorena diventa l’emblema di una lotta collettiva, nonché di una rabbia che nasce da secoli e secoli di sopraffazioni. Lorena ci si ritrova in mezzo quasi per caso, ma acquista progressivamente coscienza del suo ruolo, aiutata con furbizia da un agente hollywoodiano che gestisce i suoi rapporti con la stampa. Molto significativa è l’intervista concessa a Vanity Fair prima ancora del processo, dove la giovane donna accetta ben volentieri di posare in costume da bagno per un servizio fotografico patinatissimo. Ritratta come una diva, in equilibrio precario tra innocenza e malizia, Lorena trova quel sogno americano che sperava di conquistare fin dal suo arrivo negli USA, traendo il meglio dalla sua situazione.
Questo ci porta al secondo focus tematico della docuserie, le cui vibrazioni riecheggiano ai giorni nostri. Nel trattare il caso Bobbitt, Lorena risale alla genesi di un giornalismo che tuttora domina la scena, basato su toni sensazionalistici e un ciclo di sole 24 ore, oltre il quale la notizia è già “vecchia”. La copertura mediatica è compulsiva, si cercano perennemente nuovi dettagli succosi da dare in pasto agli spettatori, gettando così le basi per quel modello d’informazione televisiva che ha trovato fortuna nei rotocalchi e nei notiziari non-stop. Le ragioni dietro al gesto passano in secondo piano, ciò che conta è il lato più grottesco, quasi comico, dell’atto devirilizzante: in un mondo di uomini, è impossibile prendere sul serio una donna che taglia il pene al marito; è troppo assurdo, troppo ridicolo. Inoltre, John e Lorena sono due giovani di bell’aspetto, quindi attraenti, desiderabili, e l’incidente è di natura sessuale. Per la stampa è una specie di miracolo: c’è tutto quello che il pubblico desidera. Solo il Sexgate tra Bill Clinton e Monica Lewinsky, quattro anni più tardi, riuscirà ad alzare ulteriormente l’asticella della morbosità condivisa.
Anche grazie al filtro dei media, la vicenda oltrepassa i confini della cronaca ed entra nel territorio del costume. Sull’onda di un pragmatismo tutto americano, essa diventa un fenomeno da sfruttare fino al midollo: con apparente distacco, Joshua Rofé recupera i più improbabili materiali d’archivio che mostrano le ospitate di John a eventi di ogni tipo (tra cui un concorso di bellezza), e soprattutto quelli che testimoniano la produzione di souvenir e oggetti di merchandising, come magliette o altri gadget venduti a Manassas durante il processo. Le udienze stesse diventano uno show televisivo, dove la macchina da presa stringe su Lorena per cogliere ogni singola lacrima, ogni sussulto della voce quando descrive gli stupri, all’insegna di una spettacolarizzazione del dolore che sarà riciclata dai reality, dai talent show e dai rotocalchi pomeridiani. È già tutto lì, e Rofé lo sa bene.
Nelle sue densissime quattro ore, Lorena è sempre in bilico fra il desiderio di sostenere una “tesi” e l’istinto a nasconderla, fingendosi imparziale quando invece non lo è per niente. Il titolo dice già tutto: questa è la versione di Lorena, il suo punto di vista. Non a caso, la docuserie sorvola su alcuni aspetti controversi del suo personaggio (la successiva accusa di aggressione contro sua madre – dalla quale comunque e stata assolta – o l’incontro con John a The Insider), e punta tutto sulla sua crescita individuale, mettendo a confronto la ragazza di allora e la donna di oggi. Più matura e posata, ambiguamente divisa tra candore e autoconsapevolezza, Lorena viene ritratta come una donna che ha preso in mano la sua vita, determinata a non lasciarsi più influenzare più da fattori esterni. Anche lo stesso John, disilluso e appesantito, ha un’aria più tranquilla e ponderata mentre si racconta davanti all’obiettivo, offrendo un’immagine che stride con i reperti dell’epoca.
Questa capacità di mettere in relazione il passato e il presente – sia nei personaggi sia nella rilettura degli eventi – è senza dubbio il maggior pregio della docuserie, che utilizza un linguaggio convenzionale ma efficace, suddividendo il racconto in quattro parti che corrispondono ad altrettante focalizzazioni. Alla fine, la sintesi più efficace dell’intero discorso è nelle parole di una malinconica escort che lavorava nella casa d’appuntamenti in cui John fu impiegato come celebrità locale, per accogliere i clienti e servire qualche drink. Seduta sul bordo del letto, un sorriso disincantato sul volto, la donna parla con la voce di chi ne ha vissute tante, davvero troppe: «In Africa vengono tagliati milioni di clitoridi, e nessuno dice niente. A un uomo viene tagliato il cazzo, e un intero fottuto paese si ferma. Lo sapete… è un mondo di uomini».
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