Glass viviseziona il mito dei supereroi: la recensione del film di M. Night Shyamalan

Glass viviseziona il mito dei supereroi: la recensione del film di M. Night Shyamalan

Di Lorenzo Pedrazzi

M. Night Shyamalan non è certo un regista convenzionale nell’industria hollywoodiana, e il suo approccio al sequel di Unbreakable ne è la dimostrazione lampante. A quasi diciannove anni dall’uscita del film (tuttora il migliore della sua carriera), il regista indo-americano ne espande la mitologia grazie alle connessioni con Split, arrivando per vie traverse a un “secondo capitolo” decisamente insolito, sia per le sue premesse – essendo un sequel di entrambi – sia per gli sviluppi narrativi. Così facendo, lascia deflagrare gli spunti disseminati precedentemente in un discorso frammentario che rievoca proprio la fragilità del vetro, e quindi la condizione fisica del geniale mastermind che muove i fili del racconto.

Ciononostante, Glass parte in modo lineare, pulito, tant’è che si svolge a sole due o tre settimane di distanza dall’epilogo di Split. Il mosaico di personalità multiple noto come l’Orda, coabitanti nella psiche di Kevin Wendell Crumb (James McAvoy), ha rapito quattro cheerleader che considera “impure” perché non hanno mai sofferto, e si prepara a offrirle in pasto alla Bestia. Sulle loro tracce, però, c’è David Dunn (Bruce Willis), il giustiziere invulnerabile noto all’opinione pubblica come Sorvegliante o Guardiano Verde, che pattuglia le strade di Philadelphia con il supporto del figlio Joseph (Spencer Treat Clark). Il duro scontro che ne consegue non giova ai due superuomini: la polizia, infatti, li cattura e li affida alle cure della Dr.ssa Ellie Staple (Sarah Paulson) presso un istituto psichiatrico della città, dov’è rinchiuso anche Elijah Price (Samuel L. Jackson). Ellie vuole convincerli che nessuno di loro possiede caratteristiche sovrumane, ma l’Uomo di Vetro ha in mente un piano ben diverso. Nel frattempo, sua madre (Charlayne Woodard), la giovane Casey (Anya Taylor-Joy) e lo stesso Joseph intervengono per mediare fra la psichiatra e i tre pazienti, con risultati imprevedibili.

Di fatto, Glass è un sequel di Unbreakable molto più di quanto non lo sia di Split, al di là degli ovvi collegamenti narrativi con quest’ultimo. Shyamalan amplia la sua riflessione sul fumetto supereroistico per adeguarla a un mondo che, rispetto al 2000, è inevitabilmente cambiato: la popolarità dei supereroi è cresciuta moltissimo grazie al successo dei cinecomic (e Unbreakable, in tal senso, è stato pionieristico), quindi il discorso non riguarda più un gruppo sparuto di appassionati che se la cantano fra loro, bensì una platea globale che considera i personaggi dei fumetti alla stregua di una nuova “mitologia”, intesa come raccolta di elaborazioni fantastico-metaforiche appartenenti a una determinata tradizione culturale (pop e occidentale). In modo ancor più evidente rispetto al suo prequel, Glass utilizza i fumetti come un modello su cui costruire la narrazione, e i personaggi stessi si rivolgono all’immaginario supereroistico per cercare un codice di riferimento, una guida per orientarsi in territorio sconosciuto. Qualunque dettaglio troppo specifico costituirebbe uno spoiler, ma si può dire che Shyamalan imposti il conflitto sulla contrapposizione tra una frangia razionalizzante “adulta”, determinata a relegare i supereroi nell’alveo delle fantasie infantili, e una forza contraria che invece rifiuta di abbandonare quel sogno, poiché in esso riconosce la propria identità.

Più che un film di supereroi, Glass è quindi un film sui supereroi, una riflessione sulla loro importanza crescente nella cultura popolare odierna, sempre giocata su una metanarrazione che denuda gli elementi fondamentali del racconto, esponendoli anche attraverso la voce dei personaggi; persino il ribaltamento finale risponde a questa esigenza, poiché colloca la storia in una categoria molto precisa della tradizione supereroistica. Certo, Shyamalan fa un po’ fatica a tenere insieme i pezzi: la sceneggiatura è abbastanza contorta nel suo tentativo di amalgamare le motivazioni di tutti i personaggi, alcuni snodi sono confusi o eccessivamente semplificati, ed è richiesta quella stessa apertura mentale verso l’assurdo e il parossistico che caratterizzava Unbreakable. Eppure, il suo discorso è sensato e pienamente compiuto, perché Shyamalan ha il merito di riannodare i fili attorno a ciò che gli preme di più: le relazioni umane, la solidarietà fra “puri”, il fantastico come strumento di elaborazione della perdita. La consueta eleganza della messa in scena dimostra che, al contrario di L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, questa è davvero la sua versione di un blockbuster hollywoodiano, senza compromessi di sorta. Si nota nelle insolite scelte formali che delineano l’azione, dove il punto di vista muta costantemente, ma anche nei campi-controcampi dei dialoghi (con lo sguardo in macchina come nei film di Jonathan Demme), o nei long take dove la macchina da presa abbraccia per intero le ambientazioni, valorizzando il rapporto fra gli interpreti e lo spazio.

Alla fine, il titolo dice già tutto: Glass è una celebrazione del mastermind, demiurgo dall’intelletto geniale che incarna uno dei modelli più antichi di supervillain, sempre un passo davanti a tutti; e se una mente di tal genere comincia a leggere la realtà attraverso la lente dei fumetti, il risultato non può che essere un cambiamento epocale. Un film a tratti un po’ involuto, ma capace di accettare dei rischi e imboccare strade inattese, senza mai abbandonarsi al cinismo.

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