Le leggende sono una materia delicata: assumono forme diverse a seconda della cultura e dell’esperienza di chi le tramanda, entrano nell’immaginario condiviso e poi si evolvono per gradi, di bocca in bocca. Omaggiarle significa esporsi ai rischi dell’agiografia, ma un regista che sappia davvero narrare per immagini, dotato di un talento eclettico e di una sensibilità acuminata, riesce a distillarne l’essenza più pura da un’angolazione inedita. David Lowery lo fa sembrare facile, gli viene naturale: è uno dei cineasti più versatili del cinema contemporaneo, e Old Man and the Gun dimostra la sua capacità di confrontarsi con il “mito” senza alcuna timidezza, ma individuando una chiave arguta e originale per celebrarne l’importanza. La storia di Forrest Tucker, raccontata dal giornalista David Grann nell’omonimo articolo del New Yorker, permette al grande Robert Redford di ripercorrere la sua carriera e i suoi personaggi, sintetizzandoli in un fascinoso anti-eroe che imbocca il viale del tramonto.
D’altra parte, soltanto lui poteva prestare il volto a un bandito gentiluomo che rapina le banche senza mai estrarre la pistola, mantenendo un tono pacato e cortese che sorprende le sue vittime. «Era molto gentile» dicono sempre i cassieri agli increduli poliziotti, spiazzati da questo ladro affabile che lavora con altre due icone del grande schermo, Danny Glover e Tom Waits. Il film è ambientato nel 1981, ma Lowery sembra tornare ancora più indietro, ai tempi della New Hollywood, sfruttando la granulosità del Super 16mm e lo schema cromatico del Kodachrome – utile ad ammorbidire i colori – per venare le immagini di una dolce malinconia. Non a caso, le imprese di Forrest sconfinano ben oltre il mondo criminale: durante una fuga, il bandito incontra la brillante Jewel (Sissy Spacek) e se ne innamora, senza rivelarle la sua vera identità. Intanto, però, le ultime rapine catturano l’attenzione del detective John Hunt (Casey Affleck), uomo guidato da una passione non molto diversa dalla sua, fedelmente al retaggio letterario secondo cui bandito e investigatore finiscono per assomigliarsi: sono l’uno il riflesso dell’altro, accomunati da un codice che induce il rispetto reciproco.
Ciò che ne deriva è una sfida cavalleresca tra gatto e topo, dove la preda respira il pericolo come un soffio vitale, incapace di fermarsi o di rinunciare al crimine: «Non si tratta di guadagnarsi da vivere» dice Forrest all’avvocato che gli suggerisce di trovarsi un lavoro onesto. «Si tratta di vivere». Un’esistenza vissuta sul filo, la sua, che conosce soltanto la spinta dell’adrenalina e l’eco delle sirene dietro le spalle, ma capace anche di rallentare all’improvviso per un tenerissimo bacio sulla soglia di casa, quando Robert Redford incanala tutto quel garbato magnetismo che lo ha reso irresistibile per quasi sessant’anni. Così, mentre i personaggi riflettono sull’eventualità di restare legati a ciò che amano (Jewel e il suo ranch, John e il suo lavoro…), il tempo scorre via inesorabile, soprattutto per Forrest, diviso tra l’esigenza di sfuggire alle autorità e la sua etica personale, che gli impedisce di nuocere al prossimo.
Non è un film di sangue e sudore, Old Man and the Gun: al contrario, punta sull’eleganza dei movimenti di macchina, sulla valorizzazione dei silenzi e sull’ironia delle situazioni, grazie a una sceneggiatura cui non mancano i dialoghi vivaci. In tal modo, David Lowery realizza l’heist movie più delicato e romantico di sempre, omaggio a Robert Redford e alla sua eredità cinematografica, evidente nello splendido montaggio che inanella le numerose evasioni di Forrest dalle carceri americane. Alla fine, l’attore californiano decide di salutarci con un sorriso sornione: la sua carriera da interprete finisce qui, nel modo più giusto e raffinato. Non poteva esserci un congedo migliore.
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