Mowgli, un Libro della Giungla di carne e sangue: la recensione

Mowgli, un Libro della Giungla di carne e sangue: la recensione

Di Lorenzo Pedrazzi

È abbastanza comune che due grandi studios lavorino ad altrettante versioni dello stesso progetto, ma i casi di Mowgli e Il Libro della Giungla sono particolarmente significativi. Tra il film della Warner Bros. (poi acquisito da Netflix) e quello della Disney c’è infatti una differenza che potremmo definire “culturale”, determinante nello sviluppo di entrambi: se l’adattamento di Jon Favreau – peraltro riuscitissimo – si muove sul terreno dell’autoreferenzialità disneyana, quello di Andy Serkis è invece più libero di spaziare oltre i confini del family movie, attingendo sia all’opera di Kipling sia alla retorica hollywoodiana del “prescelto”, replicata numerose volte dopo il successo di Guerre stellari.

La sceneggiatrice Callie Kloves parte dalla storia che tutti conosciamo, e le resta fedele per almeno metà film: il piccolo Mowgli perde la madre a causa della ferocissima tigre Shere Khan, ma viene salvato dalla pantera Baghera, che lo affida a una coppia di lupi perché lo crescano insieme alla loro cucciolata. Il consiglio, presieduto dal saggio Akela, accetta Mowgli nel branco, ma dopo alcuni anni il ragazzino fatica a integrarsi pienamente tra i lupi, e infatti diventa amico di un lupacchiotto gracile e albino chiamato Bhoot: un paria sociale, proprio come lui. Baghera e l’orso Baloo gli insegnano la legge della giungla e i segreti della caccia, ma il ritorno di Shere Khan obbliga Mowgli a usare l’arma degli uomini – il fuoco – per proteggere Akela, e quindi viene bandito dal branco. A questo punto, la trama prende una svolta inattesa che obbliga il protagonista a confrontarsi con la dualità della sua natura: il mondo degli uomini è allettante, ma Mowgli li scopre capaci di crudeltà indicibili nei confronti degli animali, e per questa ragione – oltre che per consumare la sua resa dei conti con Shere Khan – il giovane eroe sceglie di ascoltare il richiamo della giungla.

L’inevitabile confronto con il film Disney non giova affatto a questa produzione, che esce sconfitta in primo luogo sul campo della CGI: gli animali faticano ad amalgamarsi con il girato dal vivo, soprattutto nelle scene ravvicinate e luminose, anche perché la scelta di attribuire loro un’espressività vagamente umana (frutto del lavoro di Andy Serkis con la sua compagnia specializzata in performance capture, The Imaginarium) può sortire un effetto straniante, incerta com’è tra le esigenze dell’animazione e quelle del live-action. Questo però non impedisce a Serkis di confezionare alcune sequenze di grande respiro, dove il digitale dimostra di poter reggere la sfida perlomeno nei campi lunghi, e la giungla del film è ritratta come un luogo maestoso e imprevedibile, seppure minacciato dall’avanzata dell’insediamento umano. Civiltà e stato di natura entrano in contrasto anche qui, ma il paradosso è che gli animali sono ben più civili di noi: non uccidono mai per svago, non attaccano il bestiame dell’uomo, e rispondono a un codice rigido ma giusto. In quanto ibrido tra uomo e animale (fisicamente umano, ma culturalmente animalesco), Mowgli è visto come l’eletto che porterà equilibrio e pace nella giungla, ma per farlo deve trovare una mediazione tra le sue anime conflittuali, e quindi sperimentare la vita in entrambi i mondi.

È qui che il film piazza il suo colpo più severo, uno snodo narrativo di sorprendente crudeltà per un prodotto del genere, ma fondamentale nel percorso formativo dell’eroe. Se già Il Libro della Giungla prediligeva toni oscuri e drammatici, Mowgli sceglie una strada ancora più brutale, senza edulcorazioni: le carni si lacerano, il sangue scorre, e la morte è una realtà concreta. Non si può negare che ci sia del coraggio in questa rilettura, soprattutto se consideriamo gli attuali standard del cinema per famiglie, ma la cupezza dell’ambientazione diventa un’arma a doppio taglio quando mette in risalto alcune forzature narrative, le cui semplificazioni mal si accordano con la “serietà” del contesto. Sia la debuttante Kloves sia lo stesso Serkis non hanno abbastanza esperienza per gestire certi passaggi del racconto, che talvolta appaiono lacunosi e affrettati (come negli eventi che portano all’allontanamento di Mowgli), oppure evitano di approfondire le conseguenze dei traumi psico-emotivi (come quello che lo induce a tornare nella giungla).

A controbilanciare questi balbettii c’è però un cast vocale sontuoso, che rende la visione in lingua originale praticamente obbligata. Christian Bale (Baghera), Peter Mullan (Akela), Benedict Cumberbatch (Shere Khan) e Andy Serkis (Baloo) sono esemplari per profondità e dedizione, capaci di sfumare i loro caratteri con la “semplice” modulazione della voce, valorizzandone il timbro dolente e malinconico che rispecchia l’aspetto fisico dei personaggi. Tutti gli animali di Mowgli recano sul corpo una costellazione di ferite, cicatrici ed escoriazioni che derivano da mille battaglie, fino all’apogeo rappresentato da un silenzioso elefante che si muove nella giungla come una montagna vivente, ricoperto di muschio e radici.

Insomma, tra buone idee di character design e pecche tecnico-narrative, questa rivisitazione dei racconti di Kipling riesce certamente a trovare una sua personalità, ma le manca quell’afflato epico che le permetterebbe di costruire il giusto climax.

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