Dai medioevi alternativi dell’high fantasy ai totalitarismi avveniristici della fantascienza distopica, la costruzione di un mondo fantastico richiede sempre di azzerare (o quasi) il tessuto storico-sociale della nostra realtà contemporanea, rifondandone le premesse sotto nuovi vessilli. In tal senso, si può dire che Macchine mortali opti per una soluzione ibrida, figlia delle numerose influenze che pesano sul romanzo di Philip Reeve: la trama si dipana in un futuro molto remoto, ad almeno mille anni da quando una terribile arma di energia quantica – nella fugace “Guerra dei Sessanta Minuti” – ha stravolto la faccia della Terra, sradicando quasi per intero le civiltà esistenti; l’ambientazione rievoca quindi non soltanto la sci-fi distopica e post-apocalittica, ma anche i filoni del science fantasy e dello steampunk, da cui deriva l’estetica del film. Non a caso, le eponime “macchine mortali” sono gigantesche città semoventi (o “trazioniste”) che si spostano tra le lande desolate del pianeta in cerca di risorse da sfruttare, spesso attaccando le città più piccole per assimilarle: così, messi di fronte a questo soggetto, il produttore Peter Jackson e il regista Christian Rivers vedono una ghiotta opportunità per legittimare lo steampunk agli occhi di Hollywood, confezionando il primo vero blockbuster appartenente a questo sottogenere (se si escludono alcuni tentativi fallimentari, come Wild Wild West).
L’impiego di un’estetica tanto peculiare non è affatto gratuito. Un millennio dopo l’apocalisse, infatti, l’umanità si è dovuta arrangiare con gli scarti della vecchia tecnologia, costruendo un mondo che ricorda sia l’epoca vittoriana dello steampunk sia le istanze futuristiche della post-atomica, dove persino gli elementi più avveniristici hanno una patina vetusta e retrò. Sullo sfondo di questo panorama si muove Hester Shaw (Hera Hilmar), una ragazza dal volto sfigurato che vuole uccidere Thaddeus Valentine (Hugo Weaving), potente archeologo di Londra, ovvero la più aggressiva fra le città trazioniste. Il giovane storico Tom Natsworthy (Robbie Sheehan) sventa l’attentato e insegue Hester, salvo poi scoprire che il rancore di quest’ultima è ben giustificato: Valentine ha infatti ucciso sua madre, e ora pianifica di ricostruire l’arma quantica per distruggere la muraglia che protegge le città anti-trazioniste, ultimo baluardo delle civiltà antiche. Così, mentre un inarrestabile cyborg di nome Shrike (Stephen Lang) dà loro la caccia, Tom e Hester devono sopravvivere alle numerose insidie del continente europeo, cercando un modo per fermare Valentine.
Quello concepito da Reeve – trasposto in sceneggiatura da Jackson con le sodali Fran Walsh e Philippa Boyens – è un futuro molto lontano, eppure condannato a rivivere gli orrori della Storia: le colpe dell’umanità si reiterano sempre uguali, e Londra rispolvera i “fasti” del colonialismo per declinarli in una veste nuova, adatta ai tempi che corrono. In tale contesto, le tecnologie e gli idoli del nostro presente sono reperti archeologici da studiare e catalogare, mentre gli archeologi stessi diventano gli unici in grado d’immaginare il futuro, poiché nelle scorie del passato – anche negli oggetti più prosaici – trovano le radici della civiltà perduta, e quindi uno stimolo a progettare l’avvenire. Purtroppo, però, il potere corrompe in ogni epoca, e gente come Valentine preferisce usare l’eredità degli “antichi” per distruggere, piuttosto che per costruire un mondo nuovo. Ne deriva un’avventura molto concitata che, nonostante i validi spunti di partenza, replica gli schemi più consueti dello young adult, sia nelle caratterizzazioni dei personaggi (standardizzati, prevedibili e bellissimi) sia nella concatenazione degli eventi: alcuni snodi del racconto denotano una certa pigrizia, semplificazioni e forzature sono abbastanza comuni, mentre le scene clou sono collocate proprio dove te le aspetti, senza sorprese o grandi picchi emotivi.
Di fatto, Macchine mortali si limita a rimasticare l’immaginario fantastico e i suoi codici narrativi (dove Guerre stellari è un riferimento palese), lavorando più sul concept design e sull’ambientazione che sulla trama e i personaggi. L’apparato visivo è però sontuoso, tale da compensare almeno in parte le lacune dell’intreccio: finalmente lo steampunk può giovarsi di una grande produzione cinematografica, tecnicamente curata e di ampio respiro, impreziosita da un’estetica che Hollywood propone molto di rado; impossibile non pensare ai castelli erranti di Miyazaki, ma senza quel lirismo malinconico che li rende unici. Il film di Christian Rivers non sfugge quindi al solito retaggio dei blockbuster hollywoodiani (ottima confezione, scrittura discutibile), ma perlomeno dimostra una certa creatività in fase concettuale, ed edifica un mondo che, rimodellando il nostro, ne ricombina i tasselli essenziali fino a renderlo quasi irriconoscibile. Cinema d’evasione, letteralmente.
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