Compilare la top 10 cinematografica dell’anno ha sempre qualcosa di straniante, soprattutto per i frequentatori dei festival o delle rassegne cittadine: dovendo includere solo lungometraggi ufficialmente distribuiti in Italia nel 2018, la classifica prevede molti film che risalgono al 2017, e che sembrano lontani nel tempo per chi li ha visti in anticipo a Cannes, Locarno, Venezia, Torino o altre manifestazioni di grande caratura; ma la distribuzione italiana, si sa, non è sempre fulminea (e talvolta non potrebbe esserlo nemmeno volendo), quindi l’elenco in questione comprende titoli più o meno recenti.
Per forza di cose, ho dovuto escludere quei film che in Italia non sono ancora usciti ufficialmente, quindi niente da fare per High Life, Suspiria, Dragged Across Concrete, Una notte di 12 anni, American Dharma e Cafarnao, giusto per citarne alcuni. Ho deciso di esonerare anche lo splendido The Other Side of the Wind, stavolta per ovvie ragioni “storiche”: il film di Orson Welles è uscito lo scorso novembre dopo quarant’anni di post-produzione e contrasti sui diritti, ma appartiene comunque al 1976, anno in cui sono state completate le riprese.
Partiamo dalle menzioni speciali, in ordine sparso, poi proseguiamo con la classifica vera e propria.
MENZIONI SPECIALI: Chiamami col tuo nome, Cold War, Avengers: Infinity War, La stanza delle meraviglie, Mission: Impossible – Fallout, Old Man and the Gun, Mute, L’isola dei cani, The Disaster Artist, Dogman, BlackKklansman, L’uomo che uccise Don Chisciotte, La ballata di Buster Scruggs.
Ed ecco la mia TOP 10:
I luoghi sono pregni di memoria, ma sono anche una soglia tra passato e futuro. Robert Guédiguian ricostruisce un nucleo familiare attorno alla nostalgia, alla disillusione e alla crisi delle ideologie, donandogli però un nuovo impulso che si nutre di valori basilari: l’empatia e la solidarietà umana. Per fortuna che, in mezzo a tante chiacchiere ridicole sul “buonismo”, qualcuno ci crede ancora.
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La regista Nora Twomey e lo studio Cartoon Saloon traspongono il romanzo di Deborah Ellis in un film d’animazione poetico e dolente, che mette in scena non soltanto la crudele assurdità del fondamentalismo, ma anche i suoi paradossi logici. Un orrore che si consuma sul corpo delle donne, sulla loro identità personale e sulla loro libertà, ma che non può minarne l’astuzia e l’intelligenza. Alle spalle ci sono i grandi miti dell’antichità, testimoni di una cultura che nessun radicalismo potrà mai oscurare.
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L’anno che ha visto la scomparsa di Steve Ditko e Stan Lee si chiude con uno splendido omaggio alla loro più grande creazione: Spider-Man: Un nuovo universo è il blockbuster più creativo del 2018, e forse anche il migliore in assoluto, se consideriamo il sorprendente equilibrio tra cuore, spettacolo visivo, polifonia narrativa e innovazione tecnico-estetica (mai visto un tratto grafico così sperimentale nell’animazione mainstream, quantomeno negli anni Duemila). Ma è anche la dimostrazione che i cinecomic sono duri a morire, e possono ancora offrire un intrattenimento di grande qualità, reinterpretando il “cinema delle attrazioni” nel modo più onesto e suggestivo.
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Atto d’amore per le donne della sua infanzia, Roma è il film con cui Alfonso Cuarón celebra il matriarcato, all’insegna di una famiglia allargata dove non contano i legami di sangue, ma l’aver condiviso un percorso insieme; ne deriva uno spaccato intimo e delicato che sfiora l’universalità, mentre la Storia si agita sullo sfondo e la macchina da presa disegna traiettorie elegantissime. Cinema come ricerca introspettiva, insomma, di natura personale ma non narcisistica: un vibrante soffio di vita.
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Nessuno come Abdellatif Kechiche riesce a impregnare i suoi film di una sensualità tanto debordante: Mektoub, My Love: Canto uno è un’esplosione vitale, un torrente irresistibile di suoni e immagini da cui lasciarsi trascinare, mentre assistiamo all’apprendistato sentimentale di un ragazzo che, troppo abituato al ruolo di osservatore e narratore, impara lentamente a “vivere”. Cinema di corpi e di volti, carnale nel senso più puro del termine.
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Un altro, stupendo documentario fluviale di Frederick Wiseman, autore “invisibile” che penetra nelle istituzioni americane (o internazionali) per svelarne i meccanismi interni, l’umanità che li abita e il ruolo che esercitano nella vita quotidiana. Stavolta ci accompagna nella storica New York Public Library, valorizzandone la funzione sociale: la biblioteca newyorkese viene ritratta come un irrinunciabile faro culturale che – attraverso la diffusione di informazioni, risorse, storie ed eventi, quindi nella sua basilare multimedialità – squarcia le nebbie dell’ignoranza e del pregiudizio, aprendosi letteralmente a tutti.
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La famiglia, tematica essenziale nel cinema di Hirokazu Kore’eda, è il nucleo attorno cui ruota anche questo splendido film, dove però il discorso si radicalizza: il cineasta giapponese racconta infatti il superamento della famiglia tradizionale, mettendo in secondo piano i legami di sangue – che non sono una garanzia di affetto – per celebrare una solidarietà più nobile, frutto dei sentimenti e non degli obblighi parentali. Così, un gruppo di ladruncoli si dimostra più amorevole di tanti genitori naturali, e un abbraccio si rivela molto più educativo di mille ceffoni.
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Sean Baker è uno dei pochi registi capaci di attribuire spessore ai non-luoghi, trasfigurandoli in spazi relazionali che riflettono l’interiorità dei personaggi: The Florida Project (titolo originale) è una meravigliosa avventura che si svolge all’ombra di Walt Disney World, mettendo in scena un’umanità marginalizzata ma straordinariamente vitale, molto più “vera” di qualunque cosa si stagli oltre le mura del parco. Così, se la sfera degli adulti è in caduta libera, in quella dei bambini c’è ancora spazio per il sogno, e per una fuga vertiginosa nel “luogo più felice del mondo”.
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Paul Schrader compendia le sue ossessioni e i suoi tormenti in un film lancinante, spietato e lucidissimo, dove il corpo martoriato di un uomo di Chiesa riflette la corruzione del presente. In questa frattura tra le azioni umane e l’utopia della fede, amore e desiderio (anche sessuale) rappresentano le uniche possibilità di salvezza, in grado di elevarci ben oltre le logiche utilitaristiche del mondo sensibile.
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Il cinema di Paul Thomas Anderson si conferma un unicum imprescindibile, fuori da ogni tempo e da ogni moda: Il filo nascosto è un’opera monumentale dove l’amore malato tra uno stilista inglese degli anni Cinquanta e la sua “musa” nasconde un coacervo di impulsi mortiferi e spasmi vitali, guidati dal desiderio frustrante di esercitare il controllo assoluto sull’altro. A dominare tutto questo c’è il “non detto”, orchestrato magistralmente da Anderson in un gioco di silenzi che delega il suo potere espressivo agli sguardi, alla mimica, alla gestualità e alla prossemica degli attori. Straordinario.
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