Seconda occasione: veterani vs marziani in Battleship (2012)

Seconda occasione: veterani vs marziani in Battleship (2012)

Di Nanni Cobretti

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L’ACCUSA: “non assomiglia per niente al gioco da tavolo della battaglia navale”

SVOLGIMENTO
C’è stato un periodo in cui Hollywood era convinta di poter trasformare in film qualsiasi cosa.
Non se lo sono inventati dal nulla, eh?
Esistono sondaggi per queste cose.
Un tizio pagato dalla Warner Disney va in giro per la città e chiede, che ne so, “lo guardereste un film tratto da Tetris, dal Forza 4 o dal Nascondino?”.
E voi – lo so che lo fate, vi conosco – pensate “so benissimo cos’è Un Due Tre Stella, ci giocavo da bambino, non so neanche da dove cominciare a immaginarmelo in forma narrativa, ma se mi state dicendo che la 20th Century Paramount è pronta a investire soldi ed energie per farci un film significa che in qualche modo hanno avuto un’idea che ha senso, non riesco minimamente a figurarmi quale però la faccia di questo tizio che me lo chiede è assolutamente seria, non voglio fare la figura del buzzurro che non ci arriva, e onestamente più ci rifletto più sono intrigato” e dite “SÌ!”.
Per cui questo torna in ufficio e dice “il 78% degli intervistati è interessato a un lungometraggio sulle Parole Crociate”. Il capo della Metro Goldwyn Sony fa quindi recapitare un assegno a sei cifre a uno sceneggiatore e gli dice “scrivimi un film sulle Parole Crociate” “in che senso un film sulle Parole Crociate?” “non lo so, quelli sono cazzi tuoi, è per questo che ti pago, scrivilo e basta”.
Ed è così che la Universal fa entrare in produzione un film su Battaglia Navale con un budget di 210 milioni di dollari.
Poi succede un’altra cosa ancora più buffa: gli studios rivali se ne accorgono, e – storia vera – tempo due mesi esce la notizia che vogliono fare un film sul Monopoli e ci si è interessato Ridley Scott che vorrebbe farlo uscire durante la stagione degli Oscar ed è già in parola con Scarlett Johansson come protagonista.
Ed è colpa vostra.
No, non è del tizio che fa un sondaggio oscuro e non sa interpretarne i risultati.
È vostra.
Avreste dovuto avere l’onestà intellettuale di rispondere prontamente “MA NON HA IL MINIMO SENSO”.
Che ve ne frega di fare bella figura col sondaggista?
Ha problemi ben più grossi per la testa, quel povero ragazzo.
Poi il problema è che esce un film tratto da un gioco che consiste nel prendere mattoncini colorati e incastrarli fra di loro e vi piace persino, per cui tempo due anni ne hanno già fatti altri tre, quindi non abbiate la faccia tosta di lamentarvi che a Hollywood hanno delle idee di merda. È per questo che sono ANCORA convinti di poter trasformare in film qualsiasi cosa.

Comunque, passiamo oltre.
Peter Berg comincia come attore.
Il suo ruolo più famoso è quello da protagonista in Sotto shock di Wes Craven, ma si fa notare anche in quel cult ingiustamente semi-dimenticato che è L’ultima seduzione di John Dahl, e ha una particina pure in Cop Land fra Stallone, De Niro, Liotta e Keitel. Wes Craven racconta di lui che sul set faceva un sacco di domande tecniche, come se fare l’attore fosse davvero la gavetta per diventare regista.
Esordisce dietro la macchina da presa nel ‘98 con la black comedy Cose molto cattive, ma è un falso allarme. Ci pensa meglio, torna nel 2003 e con Il tesoro dell’Amazzonia inizia a giocare con le cose serie e regala quello che ancora oggi è uno dei migliori film con The Rock. Entra sotto l’ala protettiva di Michael Mann e ingrana.
Oggi Peter Berg – attualmente in sala con Mile 22 – è uno dei migliori registi action old school in circolazione, ed è famoso principalmente per la sua trilogia di storie vere che celebrano vicende di eroismo americano: Lone Survivor (sull’unico sopravvissuto a una fallimentare missione militare USA in Afghanistan), Deepwater Horizon (sui sopravvissuti all’esplosione dell’omonima piattaforma di estrazione petrolifera), Patriot’s Day (sui sopravvissuti all’attentato alla maratona di Boston e la conseguente caccia all’uomo).
Tutti e tre i film hanno Mark Wahlberg come protagonista, tutti e tre toccano volontariamente pagine considerate negative nella storia americana per celebrare la forza d’animo di chi ci si è ritrovato in mezzo e ha dovuto fare del proprio meglio per sopravvivere e contenere i danni.
Ci si potrebbe passare un’intera giornata a parlare solo di questa particolare visione autoriale e su come si inserisce nel contesto culturale americano odierno, ma non è questo l’oggetto dell’articolo.
Sarebbe inoltre facile etichettare questa trilogia come il risultato del flop al botteghino di Battleship: il primo di essi, Lone Survivor, si presenta con budget e ambizioni commerciali largamente inferiori, un tono praticamente opposto, l’impressione di voler riciclare Peter Berg come autore serio dopo aver fallito come regista commerciale.
In realtà, è Battleship ad essere il primo capitolo della quadrilogia.
“Ma è una storia inventata”, direte voi.
Chiaro, parla di un’invasione aliena, è spontaneo pensarlo, può essere.
Guardate il resto però.
Protagonista del film è “Alex Hopper”, un “giovane scapestrato” talentuoso e impulsivo (forse un po’ troppo, il Maverick di Top Gun a confronto pare il classico fidanzatino con la testa sulle spalle da presentare ai genitori) che viene costretto dal fratello a iscriversi in marina per imparare un po’ di disciplina e a combinare qualcosa nella vita. La marina americana è rappresentata da un Capitano interpretato da Liam Neeson e dagli AC/DC in colonna sonora, e non so voi ma non riesco effettivamente a pensare a niente di più americano di Liam Neeson e gli AC/DC. Forse Roland Emmerich?
Dopo un rapido flash forward troviamo Hopper con qualche grado in più ma ancora sostanzialmente un coglione, pronto ad affrontare un arco narrativo che gli insegnerà una dura lezione di vita.
Ma all’improvviso, marziani da un pianeta non specificato invadono la terra e già rovinano i flebili collegamenti con il gioco della Battaglia Navale, in cui avevo sempre dato per scontato che si affrontassero due forze terrestri (terrestri nel senso del pianeta Terra, ma ovviamente marittime), tant’è che il regolamento prevede che le formazioni di ogni giocatore siano speculari.
I marziani hanno tecnologia superiore alla nostra (tirano anche dei cosi che sembrano effettivamente i pirullini della Battaglia Navale, bel tocco) e spaccano tutto: dopo un feroce e drammatico scontro, rimane in piedi solo la nave del nostro Alex Hopper, di colpo l’ufficiale di grado più alto. Con lui: un giovane Jesse Plemons, un ambasciatore per il mercato asiatico (Tadanobu Asano) e Rihanna. Non precisamente Lone Survivor, ma quasi.
Qui Peter Berg sfodera il suo tocco distintivo: per la sottotrama sulla missione secondaria terrestre ingaggia Gregory D. Gadson, che non è un attore bensì un vero colonnello, un reduce che ha perso le gambe in un’esplosione a Baghdad e che all’epoca fu uno dei primissimi a farsi impiantare protesi artificiali che gli permettevano di tornare a camminare. Ed è tutt’altro che un ruolo secondario: è lì per menare marziani e dire frasi fighissime, e martellare l’idea che con la tecnologia odierna è possibile rimediare anche a danni così gravi, che non tutto è perduto e si può ancora correre, menare, essere eroici, sei anni prima di Dwayne Johnson in Skyscraper e con molta più efficacia.
E non è tutto: dopo aver escogitato uno stratagemma stupido per infilare davvero il gioco della Battaglia Navale almeno per cinque minuti, in cui si inquadrano attori che urlano “B… Sette!!!” con lo sguardo più intenso e trepidante che riescono a mantenere, Peter Berg molla l’idea e svela il vero oggetto del titolo: la U.S.S. Missouri, vera leggendaria nave da combattimento che ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, alla guerra in Corea e persino alla guerra del Golfo. La stessa nave protagonista di Trappola in alto mare, oggi glorioso museo. L’idea vincente di Battleship è recuperarla di nuovo come ultimo baluardo fieramente analogico nella guerra contro i marziani, ma soprattutto farla manovrare da un gruppo di veri veterani ormai anzianotti, protagonisti di una delle scene più belle della storia del cinema che è ovviamente il montaggio di preparazione alla battaglia sulle note di Thunderstruck degli AC/DC.
Insomma, Battleship affronta gli stessi tempi di Lone Survivor e i suoi cugini tematici, ma al contrario: non una storia vera interpretata da finti veterani, bensì una storia finta interpretata (anche) da veri veterani. È, in sintesi, il primo tentativo di Peter Berg di omaggiare e glorificare una ben precisa fetta di pubblico, fatta di gente che si è sacrificata per il proprio paese e non è mai a corto di bisogno di sentirsi apprezzata. Non può finire con il montaggio malinconico di video e foto dei veri protagonisti, un’arte che nei suoi tre film seguenti Berg ha trasformato da rapido slideshow informativo a estesa sequenza pre-credits accompagnata da un’emozionante ballad, ma platealmente vorrebbe.
Tutto questo sembra essere effettivamente il vero motivo subdolo per cui Berg ha accettato di girare il film, ma è oggettivamente secondario per apprezzarlo.
Quello che il nostro fa molto bene è evitare che le sue intenzioni serie ostacolino ciò che sostanzialmente è un film che sa di dover essere prima di tutto divertente e spettacolare, e che per fare ciò guarda alle distruzioni dense e caotiche di Michael Bay, accumulate in quantità generosissime.

La struttura è una specie di Top Gun elevato alla seconda, con lo sfortunato Taylor Kitsch che funziona alla grande nel ruolo del coglioncello che impara a prendersi delle responsabilità (figura archetipica che Berg aveva già a suo modo trattato nel precedente Hancock con Will Smith), comprimari adeguati e forse l’unico errore tattico di prendere il non-attore Colonnello Gregory Gadson e affiancargli la non-attrice Fotomodella Brooklyn Decker. Persino Rihanna funziona (sua la frase più inquietante del film, quel “sembri un incrocio fra Donald Trump e Mike Tyson” rivolto all’eroe del film in senso ovviamente negativo, chissà se oggi il chiaramente repubblicano Berg se la rimangerebbe).
Ed è incredibile rendersene conto dopo quanto ho descritto qua sopra, ma Battleship è il tipo di film che sa perfettamente di essere solo una fantasia escapista, e accetta il suo ruolo con convinzione: non si prende troppo sul serio, e non ci si vergogna nemmeno. Altrimenti perché far camminare un mucchio di anzianotti in Ray-Ban al rallentatore sulle note di Thunderstruck? Che scena gloriosa.
Il resto è una festa per gli occhi, con spettacolari scene di distruzione di massa a getto continuo, ritmo a rotta di collo, battutacce epiche senza vergogna (“Io morirò, tu morirai, moriremo tutti… ma non oggi”) e stereotipi di genere rispettati con gioia, orgoglio e affetto. Il raro blockbuster che sa perfettamente qual è il suo posto nel mondo e lo soddisfa e lo rispetta in pieno.
Al botteghino, Battleship ha un andamento bipolare ma chiarissimo: va bene nei territori in cui esce in lieve anticipo sulla stagione estiva, va malissimo negli USA dove hanno la malaugurata idea di farlo uscire poco dopo il primo film degli Avengers e dopo che l’aria di sfiga attorno a Taylor Kitsch per via del flop storico di John Carter si era ormai pienamente formata. I critici lo trattano malissimo per l’eccessiva somiglianza ai film di Michael Bay, peccando di plateale superficialità.
Battleship, tirando le somme, è il classico film che gioverà della sua presenza nei canali di streaming e dalla decontestualizzazione da altri film simili dello stesso periodo, e verrà rivalutato col tempo.
È una scommessa talmente facile che non mi sento nemmeno furbo.

IL VERDETTO: è uno dei blockbuster più gloriosi e divertenti degli ultimi anni, maledizione, ma che vi prende?!? Non vi capisco.

COS’HO IMPARATO: che sì, è possibile trarre un’opera meritevole da un’idea senza senso.
E quindi se Hollywood continuerà a trarre film da qualsiasi stupido marchio conosciuto gli venga in mente ok, forse è anche un po’ colpa mia.
Lo accetto.
Scusatemi.

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