The Romanoffs, quel che resta del trono: la recensione del primo episodio dal FeST

The Romanoffs, quel che resta del trono: la recensione del primo episodio dal FeST

Di Lorenzo Pedrazzi

L’autorialità, nelle serie televisive, è un’idea relativamente nuova. I casi di Rod Serling, David Lynch e Chris Carter (la cui piena paternità dei rispettivi show è stata riconosciuta fin dall’inizio) sono piuttosto isolati nelle loro epoche, anche se certamente Lynch ha giocato un ruolo pionieristico in quanto creatore, produttore, co-sceneggiatore e regista di Twin Peaks, forse l’inizio ufficiale della TV “d’autore”. Il concetto, però, si è definitivamente radicato solo negli ultimi anni, sia per merito di sceneggiatori dalla forte personalità (David Simon, Vince Gilligan, Shonda Rhimes, Nic Pizzolatto, Amy Sherman-Palladino, Noah Hawley…) sia per l’impegno di quei registi che accettano di dirigere una serie quasi per intero (Jane Campion, Cary Joji Fukunaga, , Jean-Marc Vallée, Michel Gondry…), imponendo uno sguardo filmico e morale che resta costante per tutta una stagione.

Reduce dall’enorme successo di Mad Men, Matthew Weiner cerca un accordo fra queste istanze creative nella sua nuova serie, The Romanoffs, il cui primo episodio è stato proiettato ieri al neonato Festival delle Serie TV di Milano, ed è già disponibile su Amazon Prime Video (per ora solo in lingua originale) insieme alla seconda puntata. Weiner si è guadagnato l’aura di “autore” proprio grazie a Mad Men, campione assoluto della TV di qualità, ed è per questo che la sua seconda creatura è circondata da molte aspettative. Il risultato è spiazzante, ma dimostra la versatilità di uno sceneggiatore che vuole sfuggire alle facili classificazioni: a giudicare dal primo episodio, The Romanoffs sceglie una leggerezza che ha ben poco in comune con Mad Men, peraltro calata in una struttura rigorosamente antologica. Ogni puntata è infatti un lungometraggio di 80/90 minuti che narra la storia di alcuni presunti discendenti dei Romanov, alternando nuovi personaggi e nuove ambientazioni geografiche, con una predilezione per il racconto verticale su quello orizzontale.

Si parte con The Violet Hour, nella Parigi dei giorni nostri, dove Anushka (Marthe Keller) occupa l’enorme appartamento che fu dei suoi genitori, transfughi della famiglia Romanov dopo la Rivoluzione Russa. In città vive anche suo nipote Greg (Aaron Eckhart), che gestisce un albergo insieme alla fidanzata Sophie (Louise Bourgoin), sempre più insofferente alla tempra di Anushka, che non vuole proprio saperne di morire nonostante i numerosi acciacchi. Quando le viene assegnata una nuova badante, l’anziana donna trasalisce: alla sua porta trova infatti Hajar (Inès Melab), giovane musulmana che sta studiando per diventare infermiera. Anushka la travolge d’improperi razzisti, ma i suoi preconcetti si smussano gradualmente quando scopre di non poter fare a meno di lei, ragazza intelligente che sa tenerle testa. Hajar, senza volerlo, entra nella vita di questa famiglia e la sconvolge, toccando anche lo stesso Greg.

Sorprende, come accennato in precedenza, l’impiego di toni umoristici che avvicinano The Violet Hour a una delle molte trasferte europee di Woody Allen, anche nel ritratto di una Parigi divisa fra semplice quotidianità e cartolina turistica, dove la colonna sonora sembra fatta apposta per accompagnare una passeggiata sognante nella capitale francese. Si sorride spesso, anche davanti ai pregiudizi di Anushka: Matthew Weiner – alla regia di tutti gli episodi – rievoca le commedie rosa di Hollywood e mette in scena un personaggio che, pur sfiorando la macchietta in alcune circostanze, si lascia amare per la sua ingenua fedeltà a un regno perduto, e per la sua disposizione al cambiamento di fronte a un mondo in evoluzione. In fondo, i discendenti dei Romanov smisero di seguire le leggi di famiglia sulle unioni matrimoniali non appena scapparono dalla Russia, quindi come si può rifiutare un eventuale erede di sangue misto? Weiner allestisce un semplice dualismo tra l’ancien régime di Anushka e il mondo nuovo di Hajar, dalla cui collisione entrambe acquisiscono qualcosa, in termini sia umani sia culturali. Se la ragazza è nettamente proiettata verso il futuro e ambisce all’affermazione professionale, Anushka ha sempre lo sguardo rivolto al passato, ricco di fasti irripetibili e di un romanticismo che ammalia per la sua decadenza: «Il cielo di Parigi cambiò colore quando morì mio figlio» dice l’anziana donna ad Hajar, offrendole una trasfigurazione poetica del proprio trauma personale. Lo stesso appartamento parigino è affastellato di ninnoli che un tempo sarebbero stati degli emblemi di potere, ma oggi appaiono soltanto come feticci del tempo che fu, clamorosi falsi per salvare le apparenze.

Weiner, però, diluisce la potenziale drammaticità di alcuni snodi narrativi con la delicatezza della commedia, e infatti l’episodio scivola al massimo in una dolce malinconia, senza mai adottare un passo greve e spigoloso. È vero, l’autore mette un po’ di Don Draper nel personaggio di Greg, ma forse quest’ultimo è guidato da sentimenti più puri e da intenzioni più nobili, in contrasto con il freddo opportunismo di Sophie. La ricerca di un’intesa è costante, gli animi più bellicosi vengono marginalizzati perché non facciano troppi danni: così, il senso di familiarità e tepore che si ricava dalle inquadrature finali chiude il cerchio in modo coerente, celebrando lo sposalizio fra due mondi che hanno un assoluto bisogno di armonizzarsi per sopravvivere, accettando le sfide della Storia senza ereditarne i preconcetti.

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