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Seconda Occasione: il ciuffo sbarazzino di Spider-Man 3 (2007)

Pubblicato il 09 ottobre 2018 di Nanni Cobretti

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L’ACCUSA: l’essersi messo un ciuffo davanti alla fazza e aver ballato malissimo.

SVOLGIMENTO
Il primo Spider-Man di Sam Raimi, anno 2002, è stato il primo film a farmi esclamare “COSÌ si fanno i film di supereroi“.
Certo, amo da sempre il Superman di Donner, che aveva l’epica del blockbuster. Amo il Batman di Tim Burton, una rivisitazione personale e perversissima del concetto stesso di eroe mascherato. Blade era un signor action. Non erano male neanche gli X-Men, solidi, modernizzati e sostanziosi a dovere. Ma Spider-Man… ok, cambiava qualche dettaglio qua e là, ma era un fumetto che non si vergognava di essere tale. Non si nascondeva dietro i costumi ingrigiti, neutralizzati, smorzati. Non adattava il fumetto ai trend del cinema, ma il cinema al cuore del fumetto. Non si vergognava di essere solare e divertente, e contemporaneamente stava attento ai suoi personaggi, attento al modo di raccontare una storia con un senso e uno scopo, mentre l’innato talento visivo di Raimi gestiva le scene d’azione e gli svolazzi per New York con una naturalezza disarmante. Era davvero, come approccio alla materia, la pietra angolare su cui ancora si fonda il Marvel Cinematic Universe di oggi.
Il secondo Spider-Man (2004) era conferma e trionfo.
Il terzo incassò una barca spropositata di soldi, persino più degli altri due, per cui eccoci in uno di quei casi in cui vi parlo di un film non tanto perché fu un flop commerciale ma quanto perché il consenso generale è che rovinò maldestramente quanto di bello creato con gli altri due.
La storia di base è questa: Raimi consegna lo script che chiude idealmente la sua splendida trilogia della crescita, la Sony dice “ok ma infilaci anche Venom“. Raimi dice “ma il cattivo della mia storia è Sandman“. La Sony: “ANCHE Venom“. A Raimi non basta aver incassato 1700 milioni di dollari con due film: perde la prova di forza e fa riscrivere. La Sony dice “finché ci sei, crepi l’avarizia, mettici pure Gwen Stacy“.

L’affollamento eccessivo di personaggi diventa chiaro da subito e si contempla l’idea di dividere il film in due, ma l’impossibilità a trovare una chiusura soddisfacente per una potenziale prima parte fa rinunciare all’idea: si va avanti con l’ammucchiata in due ore e venti, e amen.
Il macello è chiaro fin dall’inizio, in cui nel giro di pochi minuti vengono introdotte almeno sei storyline parallele: 1) Peter Parker si è abituato ad essere una star amatissima come Spider-Man ed è fomentatissimo; 2) Mary Jane che cerca di avere una carriera a Broadway ma le cose non vanno esattamente come sperava e Peter sembra non capire il suo stato d’animo; 3) una misteriosa sostanza aliena casca per terra dallo spazio e con tutti i posti in cui poteva atterrare sul pianeta finisce vicino a Peter Parker e ci si infila addosso; 4) un tizio fugge di galera per andare a trovare la figlia ma finisce in un macchinario sperimentale che lo trasforma in Sandman l’uomo sabbia; 5) James Franco incolpa Peter Parker della morte di suo padre, trova l’attrezzatura da Goblin e inizia a progettare di super-ammazzarlo; 6) introduzioni per Eddie Brock (futuro Venom), Gwen Stacy (triangolo amoroso), ecc…
È chiaro da subito che la sequenza degli eventi è forzata e pasticciata: troppe cose hanno bisogno di essere costruite e sviluppate, e finiscono per essere mescolate, accennate e abbandonate e riprese un po’ a caso, come un impiegato che deve finire diversi progetti entro una scadenza troppo stretta e comincia a lavorare freneticamente un po’ a uno e un po’ all’altro senza darsi il tempo di organizzarli.
La storia di Sandman è la più interessante: sicuramente criticabile per il mezzo retcon con cui lo si scopre improvvisamente responsabile della morte dello zio Ben, in compenso azzeccato e coinvolgente nella tenera storia di famiglia, nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto insegnare a Peter che la differenza tra buoni e cattivi non è sempre netta – lezione amplificata dagli eventi di contorno con l’amico/nemico Harry Osborne – e che gli eventi della vita non vanno analizzati superficialmente, ma finisce tritata da una seconda parte del film che per dare un senso a Venom si dedica a tutt’altro.
Ed è proprio la storyline di Venom la più criticata. Da fiero raccontastorie Raimi non vuole usarla come contorno a caso ma si preoccupa di costruire qualcosa che insegni una lezione a Peter, in questo caso il simbionte che ne amplifica i lati negativi del carattere rovina la sua relazione con Mary Jane, fa esplodere le sue frustrazioni da ex-emarginato e lo mette in guardia contro gli eccessi di esaltazione dovuti alla fama. Ma è il modo in cui lo fa a lasciare perplessi i più: una resa estremamente old school che vorrebbe dipingerlo nonostante tutto come un simpatico arrogantello sfigato, tutto mossette di danza d’altri tempi e simbolico ciuffo davanti agli occhi come nei più stereotipati cartoni giapponesi. La cosa – soprattutto dopo le tipiche decontestualizzazioni di internet – andò giù malissimo con il pubblico. Si risvegliarono a suo modo gli incubi di Superman 3, un altro terzo capitolo supereroistico che decideva di avvelenare il suo protagonista nel suo doppio negativo, ma che buttandola anch’esso tendenzialmente sul comico finiva per creare scenette imbarazzanti.
Ma il problema sta sempre nella fretta con cui tutto deve procedere per riuscire a incastrare tutto in due ore e venti. Peter che pur sentendosi improvvisamente un playboy irresistibile finisce per dedicarsi all’emarginata figlia del suo padrone di casa, un suo doppio che non ce l’ha fatta, è un bel tocco. E non parliamo di come è costretto di conseguenza a buttare via con l’avanti veloce la storyline di Harry Osborne che diventa un nuovo Goblin nella semi-indifferenza generale per poi prendersi poco più degli avanzi di minutaggio.

È qui la frustrazione con Spider-Man 3: è due film potenzialmente all’altezza malamente mischiati in uno solo.
È lo spettacolo di un filmmaker che aveva trovato la formuletta per raccontare di supereroi in modo finalmente decoroso, fedele allo spirito, spettacolare e sostanzioso allo stesso tempo, costretto di colpo a piegarsi a quelle regole di accumulo frenetico dei blockbuster comuni di quel periodo che era finora riuscito con successo a scavalcare.
È la grossa delusione di assistere a un film che poteva essere un altro trionfo, la conclusione gloriosa di una trilogia memorabile, ma che invece viene forzato ad essere semplicemente “comune”, ad avere gli stessi difetti delle mediocrità che giravano all’epoca.
Ma sotto, si intravede ancora un cuore più grande.
Un ultima nota: fedele o non fedele, la fazza incredibile di Tobey Maguire rimane ancora uno spettacolare unicum nel mondo dei supereroi, un tipo tutt’altro che classico, uno che quando deve sembrare un nerd sfigatello impopolare ci riesce finalmente con naturalezza e non perché la sceneggiatura costringe il cantante di una boyband a mettersi occhiali e pullover dell’Oviesse e a prendersi insulti ingiustificati. Uno che non a caso Hollywood ha avuto una fretta mostruosa di rimpiazzare con l’attraente hipster Andrew Garfield. Per quel che mi riguarda, #TeamTobeyForever.

IL VERDETTO: la classe di Raimi è ancora visibile, ma la confusione è innegabile, ogni storyline è frettolosa e il messaggio che passa non è chiaro e univoco come per i film precedenti.

COS’HO IMPARATO: che Sam Raimi sotto sotto è timido, immagino. Inoltre, fra lo swing e le mossette alla John Travolta, l’ennesima conferma che se dai a un filmmaker abbastanza potere questo finirà invariabilmente per ricreare la sua infanzia/adolescenza.

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