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Hill House, ritratto di famiglia con fantasma: la recensione in anteprima

Pubblicato il 08 ottobre 2018 di Lorenzo Pedrazzi

Se esiste una storia di fantasmi che possa definirsi “seminale” nella letteratura del XX secolo, questa è certamente L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, che ha raccolto l’eredità di Henry James e ha influenzato moltissimi racconti di spettri nella seconda metà del Novecento, ispirando anche autori leggendari come Ray Bradbury e Stephen King. Due sono stati gli adattamenti ufficiali sul grande schermo: Gli invasati di Robert Wise nel 1963 (in originale The Haunting), e Haunting – Presenze di Jan de Bont nel 1999, disintegrato dalla critica per la sovrabbondanza di CGI e il tradimento dello spirito discreto che contraddistingue il romanzo. Rispetto ai film appena citati, The Haunting of Hill House cerca però una strada diversa, a cominciare dal medium scelto per la trasposizione. Il formato seriale e la libertà creativa di Netflix permettono a Mike Flanagan di sfruttare il libro per costruire una storia parzialmente inedita, giustificando con intelligenza sia la scansione episodica sia il progressivo dipanamento del mistero: il risultato è una serie horror di altissimo livello, ricca di suggestioni cinematografiche che spaziano dagli incubi raffinati degli anni Sessanta – il film di Wise in primis – agli spunti autoriali dell’indie contemporaneo.

Il fulcro della trama è sempre la magione di Hill House, dove i coniugi Crane si trasferiscono con i loro cinque figli. Il padre Hugh (Henry Thomas) è un costruttore, mentre la madre Olivia (Carla Gugino) è un architetto: lo scopo è restaurare l’edificio per rivenderlo, e infine traslocare definitivamente in una nuova casa progettata dalla stessa Olivia. Hill House, però, sembra nascondere molti segreti, tra cui una stanza che nessuno riesce ad aprire. I piccoli Steven (Paxton Singleton), Shirley (Lulu Wilson), Theodora (McKenna Grace), Luke (Julian Hilliard) e Nell (Violet McGraw) vivono strane disavventure tra le mura della casa, dove l’inquietudine cresce fino a esplodere definitivamente in una notte violenta, che li costringe a fuggire insieme al padre. Nessuno di loro sa per certo cosa sia successo, ma gli anni passano e ognuno cerca di andare avanti come può. Steve (Michiel Huisman) diventa uno scrittore di successo che – a partire dall’esperienza della sua famiglia – racconta i casi di manifestazioni sovrannaturali in ogni parte d’America; Shirley (Elizabeth Reaser) apre un’agenzia di pompe funebri e si specializza nel restauro di cadaveri; Theo (Kate Siegel) fa la psicoterapeuta infantile e vive nella dependance della sorella; Luke (Oliver Jackson-Cohen) si perde nella dipendenza dall’eroina, ma accetta di entrare in un programma di recupero per disintossicarsi; mentre Nell (Victoria Pedretti) sposa un tecnico del sonno che l’aiuta con i suoi problemi di paralisi ipnagogica. La serie comincia proprio da lei, che chiama prima Steve, poi Shirley e infine il padre Hugh (Timothy Hutton) perché terrorizzata da un orrore del passato che torna a perseguitarla. Di fronte a questa emergenza, i fratelli e le sorelle Crane saranno costretti ad affrontare i conflitti rimossi o irrisolti delle loro vite.

Qualunque informazione più specifica rovinerebbe la visione di uno show che si dipana lentamente, all’insegna di uno slow burn ben calibrato sul formato seriale. L’idea vincente di Mike Flanagan è semplice quanto efficace: dedicare i primi cinque episodi a ognuno dei fratelli Crane, bloccando la narrazione attorno a un evento cruciale che li obbliga a rievocare quegli spettri – reali e metaforici – che credevano di essersi lasciati alle spalle. I copioni del regista e dei suoi collaboratori seminano vari indizi che trovano una spiegazione solo a tempo debito, premiando l’attenzione per quei dettagli che inizialmente paiono secondari, ma nel corso della storia si rivelano fondamentali. Passato e presente si alimentano a vicenda, stabilendo connessioni tra l’esperienza dei fratelli da adulti e le loro peripezie da bambini: questa oscillazione continua è il nucleo del racconto, poiché consente di ricostruire gradualmente il mosaico di Hill House attraverso i rimandi narrativi e le motivazioni psicologiche, dimostrando che nessun elemento della trama è stato concepito per puro caso. In tal modo, i personaggi acquisiscono sempre più spessore con l’andamento degli episodi, mentre covano rancori e risentimenti che deflagrano in una puntata eccezionale, la sesta, tutta costruita da Flanagan per mezzo di long take e piani sequenza: una soluzione formale di grande eleganza che dà continuità al dramma della famiglia Crane, con effetti quasi teatrali.

Altrettanto raffinato è l’allestimento delle inquadrature, che spesso lavorano sulla profondità di campo per mettere in scena le apparizioni spettrali: più che i banali jump scare, Flanagan cerca infatti un’inquietudine che monta pian piano, restituendo l’idea di un orrore che – ben lungi dal manifestarsi all’improvviso – accompagna i protagonisti a ogni passo, come una presenza disturbante alla periferia dello sguardo. I fantasmi, in Hill House, coagulano tutte le incertezze dei personaggi nel loro rapporto con la morte (esemplare la seconda puntata), incarnando tutto ciò che è rimasto in sospeso nelle loro esistenze: sono spettri psicanalitici, in un certo senso, manifestazioni del rimosso e dell’irrisolto. Il legame tra queste presenze e l’interiorità dei fratelli Crane agevola la contaminazione fra horror e melodramma, con risultati più convincenti rispetto ad alcuni titoli coevi (tra cui il pur valido Hereditary) che giocano sul medesimo campo. Qui, sovrannaturale e dramma familiare sono inscindibili, poiché non potrebbero esistere l’uno indipendentemente dall’altro: la sopracitata alternanza fra passato e presente svela le radici del disagio, che affondano proprio nel confronto con l’impossibile, lo spaventoso, il perturbante.

Non manca qualche espediente più scontato (i fantasmi che urlano spalancando la bocca in modo grottesco), ma si tratta di casi marginali e molto fugaci, quasi uno scotto da pagare all’horror mainstream. Per il resto, Hill House non teme di prendersi i suoi tempi per sviluppare l’intreccio, rendendo ogni colpo di scena e ogni rivelazione doppiamente significativi, poiché costruiti con cura nell’arco della narrazione: niente a che vedere con gli infantilismi di certe produzioni Blumhouse, insomma, né con la morbosità greve e contorta di American Horror Story; la creatura di Flanagan cammina con le sue gambe, non inciampa quasi mai e aumenta il passo di episodio in episodio, diventando sempre più ammaliante e ricca di soluzioni. Il risultato è palese: Hill House si afferma come la più grande serie horror del panorama televisivo, ottimamente calibrata sulle esigenze dell’orrore e su quelle del dramma familiare, capace sia di spaventare sia di rendersi struggente. È un raro caso di horror in cui teniamo davvero ai personaggi, e la loro salvezza (o il loro addio) lascia sempre un segno profondo. Assolutamente da non perdere.

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