The Nightingale, il riscatto degli oppressi nel film di Jennifer Kent: la recensione da #Venezia75

The Nightingale, il riscatto degli oppressi nel film di Jennifer Kent: la recensione da #Venezia75

Di Lorenzo Pedrazzi

Al suo secondo lungometraggio, Jennifer Kent continua a indagare gli orrori che condizionano la nostra quotidianità, ma stavolta da una prospettiva diversa: se Babadook guardava verso l’interno, esplorando traumi e conflitti radicati nell’inconscio, The Nightingale si rivolge invece all’esterno, focalizzando l’attenzione sulla Storia e i suoi spettri ricorrenti. Per una nazione come l’Australia, il fantasma più spaventoso è senza dubbio il colonialismo, veicolo di oppressione che ha divelto la cultura locale, violentato il paese e seminato discriminazioni esistenti ancora oggi; di conseguenza, non stupisce che la regista di Brisbane abbia deciso di ambientare la trama nel 1825, e per di più in Tasmania, isola dove gli aborigeni subirono un vero e proprio genocidio nell’arco del XIX secolo.

Al centro della vicenda troviamo Clare (Aisling Franciosi), ragazza irlandese che viene deportata in Australia per scontare una pena carceraria, lavorando al servizio del tenente Hawkins (Sam Claflin). Sposatasi di recente, Clare ha una bambina piccola, ed è soprannominata “Usignolo” per la sua voce incantevole. Sul lavoro, però, la giovane subisce i continui abusi del tenente, che arriva persino a stuprarla. La situazione diventa ancora più critica quando Hawkins e i suoi uomini commettono un orribile atto di violenza nei confronti della famiglia di Clare, spingendola a mettersi sulle loro tracce per ottenere vendetta. Al suo fianco c’è Billy (Baykali Ganambarr), una guida aborigena che ha vissuto sulla sua pelle le ingiustizie della dominazione bianca.

Kent risale alle origini di una violenza che unisce popoli e individui assai lontani, disposti a fraternizzare in quanto reietti: Billy si è visto imporre una cultura straniera, perdendo al contempo i diritti sulla sua terra natia, mentre Clare riporta le ferite dell’oppressione maschile, per di più dal punto di vista (ulteriormente marginalizzato) di una donna irlandese. Uniti nell’odio per gli inglesi, questi due outsider possono contare soltanto l’uno sull’altra, e la cineasta cavalca il loro legame per esaltare i valori dell’empatia e della solidarietà umana, impostando uno schema palesemente manicheo: gli antagonisti sono veramente “cattivi”, non hanno sfumature, e anzi reiterano più volte la loro perfidia nel corso del film. Gli eccessi sono dietro l’angolo, le psicologie vengono banalizzate, ma è abbastanza chiaro che Jennifer Kent voglia replicare il modello del western e applicarlo al suo paese, senza risparmiarsi le ben note semplificazioni morali e caratteriali del genere “classico”.

Ciò che ne deriva è un’epopea sanguinosa di brutalità e vendetta, devastante nella messinscena degli orrori: più che una vacua spettacolarizzazione, la regista cerca lo shock percettivo che ha il merito di risvegliare le coscienze, sbattendo in faccia al pubblico numerosi stupri, infanticidi, corpi percossi e violati nella carne, sopraffazioni autoritarie e reazioni soffocate. Non si fa troppe illusioni (anzi, il film è attraversato da un cinismo crudele), ma crede nell’importanza delle radici culturali come fonte di salvezza. Se Clare porta nel cuore i brani malinconici della sua patria, Billy – il cui animale-guida, non a caso, è il merlo – intona i canti rituali che lo legano alla natura, tenendo viva la fede dei suoi padri e la mitologia della sua terra. The Nightingale è molto accurato sotto questo aspetto (il produttore esecutivo Jim Everett, del clan plangermairreenner, ha curato la rappresentazione della cultura aborigena), e lo armonizza nel percorso di avvicinamento fra i due protagonisti: l’incontro avviene proprio sul terreno della natura, quando Clare e Billy si rispecchiano nelle rispettive sofferenze, e la ragazza impara a cogliere i segni dell’universo. In tal senso, i due reietti si contrappongono agli inglesi anche nel rapporto che intrattengono con il mondo, poiché realizzano l’idillio chimerico fra natura e cultura, laddove i colonialisti sembrano aver dimenticato la prima (che sfruttano inusitatamente, modellano a propria immagine o vedono solo come un intralcio) per concentrarsi sulla seconda. Clare e Billy incarnano l’utopia di una vita in perenne ascolto, l’apertura verso “l’altro” e la disposizione ad accoglierlo.

L’impressione è che Kent debba ancora affinare la sua arte registica negli aspetti più banali, come la costruzione delle inquadrature nei dialoghi, eppure dimostra un talento spietato nel rappresentare l’oscenità della violenza, dove privilegia il punto di vista della vittima e ci costringe a “vivere” il momento dalla sua posizione emotiva. Così, anche nelle sue imperfezioni, The Nightingale possiede la sincerità e la trasparenza di un’opera molto sentita ed estremamente personale, capace di evocare il presente attraverso i drammi che lo hanno plasmato.

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