Cinema Attualità

Spike Lee, ovvero il diritto di (rac)contare

Pubblicato il 27 settembre 2018 di Filippo Magnifico

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Quando si parla di cinema (afro)americano, Spike Lee è senza ombra di dubbio il primo nome a venire in mente. Non potrebbe essere altrimenti del resto, dato che stiamo parlando di uno dei più influenti cineasti del panorama cinematografico contemporaneo, che con le sue opere – tralasciando qualche titolo commerciale – ha sempre portato avanti un pensiero preciso. Il suo è stato e continua ad essere un punto di vista essenziale, razionale, necessario, accusatorio quando serve ma soprattutto lucido nel rappresentare la contemporaneità in tutte le sue imperfezioni.

Ribelle lo è sempre stato, lo dimostra quel soprannome, Spike, che gli è stato dato dalla madre quando era solo un bambino e aveva dimostrato di avere più coraggio e faccia tosta di gran parte degli adulti che lo circondavano. Mentre l’interesse per la cultura afroamericana, la sua cultura, ha sempre occupato un posto speciale nel suo cuore, riflettendosi nei suoi studi, nell’attività di giornalista che per un breve periodo ha occupato la sua vita e, successivamente, nel suo cinema. Quel cinema nato nella seconda metà degli anni ’70 grazie ad alcuni cortometraggi.

Sempre impegnato, sia in campo personale che professionale, Spike Lee ha conosciuto il successo, quello vero, con She’s gotta have it e School Daze. Titoli in grado di ottenere un buon successo di critica e pubblico, in grado di riassumere alla perfezione le caratteristiche essenziali del suo cinema, da molti definito “neorealismo nero”.
Nessuno meglio di lui ha saputo rappresentare l’America di colore, con i suoi pregi e le sue contraddizioni. Caratteristiche che si riflettono in quello che è considerato – a ragione – il suo titolo migliore: Fa’ la cosa giusta, ispirato ad un reale fatto di cronaca, preso come spunto per una lucida riflessione sull’impossibilità di comunicare che, più di ogni altra cosa, è alla base di ogni scontro razziale.
Un tassello fondamentale all’interno della sua filmografia, che ha ottenuto una candidatura agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale, senza contare i riconoscimenti per il Miglior Film e la Regia da parte della Los Angeles Film Critics Association.

Più volte, nel corso della sua carriera, Spike Lee ha declinato i temi cari dell’integrazione razziale, da Jungle Fever a Malcolm X, da Clockers a He Got Game, diventando il portavoce ufficiale della comunità nera americana.
Fino al 2002, anno in cui ha deciso di lasciare (momentaneamente) il ghetto per realizzare quello da molti è considerato il suo capolavoro: La 25ª ora, storia di un pusher e delle sue 24 ore prima di entrare in carcere, passate cercando di aggiustare, per quanto possibile, la sua vita.

A 61 anni Spike Lee può decisamente ritenersi soddisfatto della sua vita. Ha lasciato un solco indelebile nel mondo della settima arte, raccontando meglio di chiunque altro una buona parte dell’America con la sua bellezza e le sue necessarie imperfezioni.
Lo ha fatto attraverso pellicole importanti, come la sua ultima fatica, BlacKkKlansman, che porta sul grande schermo la storia vera di un eroe americano: Ron Stallworth (John David Washington), il primo agente afroamericano a lavorare nel Dipartimento di Polizia di Colorado Springs, che negli anni 70 è riuscito – incredibilmente – ad infiltrarsi nel Ku Klux Klan.

Una storia perfetta per lui, che ha sempre fondato il suo cinema su due pilastri principali: verità e giustizia. Ma anche una storia perfetta per il tempo in cui viviamo, proprio per questo necessaria da raccontare.

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