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Maniac, almeno tu nel multiverso: la recensione della serie con Emma Stone e Jonah Hill

Pubblicato il 20 settembre 2018 di Lorenzo Pedrazzi

Non è certo un mistero che le serie tv, per emanciparsi dagli schemi del racconto verticale, abbiano rielaborato le tecniche formali e narrative di alcuni modelli cinematografici, adattandole alle esigenze della serialità mainstream. Un prodotto come Maniac, in tal senso, non sarebbe stato possibile fino a qualche anno fa: lo stesso Cary Fukunaga – preceduto in parte da Jane Campion – ha spianato la strada a una concezione più “autoriale” della miniserie, tenendo le redini di tutti gli episodi di True Detective per offrire un’impronta creativa univoca, frutto di una visione personale; non stupisce, quindi, che sia proprio lui a dirigere per intero anche questa ambiziosa produzione targata Netflix, basata sull’omonima serie norvegese di Hakon Bast Mossige ed Espen PA Lervaag.

Se è vero che Legion ci ha già abituato ai deliri psicotropi sul piccolo schermo, Maniac rievoca più direttamente alcune tendenze del cinema contemporaneo, ed è strutturato come la narrazione chiusa di un film “convenzionale”: inizio, svolgimento ed epilogo. In mezzo, la scansione episodica trova giustificazione nella trama, dove la lunghezza e la densità delle singole puntate varia in modo imprevedibile, un po’ come succedeva nella prima stagione di The OA (non a caso, altra serie della medesima piattaforma streaming: l’assenza di palinsesti e di orari da rispettare garantisce una libertà senza precedenti). Così, dopo un prologo ironico sull’origine della vita, Fukunaga e lo sceneggiatore Patrick Somerville ci proiettano in una New York alternativa e retrofuturistica, ovvero il nostro presente come l’avrebbero immaginato negli anni Ottanta: computer ingombranti, schermi bombati, scritte al neon sui monumenti, automi impacciati e panorami alienanti. Una distopia grottesca che ricorda vagamente Brazil, dov’è possibile vendere il proprio volto per le campagne pubblicitarie di un’azienda, affittare una controfigura che interpreti i nostri amici e parenti, o farsi accompagnare da un Ad Buddy che paga per noi tutte le spese, ma in cambio ci tempesta di offerte promozionali. In questo contesto si muovono Annie Landsberg (Emma Stone) e Owen Milgrim (Jonah Hill), che decidono di sottoporsi a un test della Neberdine Pharmaceutical and Biotech per sperimentare un nuovo trattamento farmacologico: si tratta di ingerire tre pastiglie – A, B e C – che promettono di riportare alla luce i traumi o i disturbi mentali più profondi, affrontarli e cancellarli definitivamente. Annie è ossessionata da un lutto che non le dà pace, mentre Owen soffre di schizofrenia e deve testimoniare a favore del fratello Jed (Billy Magnussen) in un processo che rischia di trascinare nel fango il prestigioso nome della famiglia. Rinchiusi per tre giorni nei laboratori della Neberdine, insieme ad altri partecipanti, le due “cavie” si affidano al Dr. Muramoto (Rome Kanda), al Dr. Mantleray (Justin Theroux) e alla Dr.ssa Fujita (Sonoya Mizuno), salvo scoprire un legame inatteso: qualcosa va storto durante l’esperimento, catapultando Annie e Owen nelle stesse fantasie oniriche.

Impossibile non citare Essere John Malkovich ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind come riferimenti creativi di Maniac: le scorribande della coppia in questo multiverso allucinatorio ricordano i labirinti cerebrali di Charlie Kaufman, sceneggiatore che ama tratteggiare le fughe dei suoi personaggi all’interno di un subconscio caotico e impetuoso. Non ci troviamo sugli stessi livelli di complessità surrealista, ma Fukunaga e Somerville sono bravi a trasfigurare il discorso in formato seriale, sfruttando gli episodi centrali per mettere in scena diversi “mondi” che corrispondono alle parodie di altrettanti generi cinematografici (fantasy, crime, giallo, fantascienza…). Il vissuto individuale di Annie e Owen influenza le rispettive esperienze mentali, per aiutarli a esorcizzare il dolore e superare l’autoisolamento, usando semplici metafore dei loro conflitti irrisolti: l’idea è derivativa, ma nelle mani di Fukunaga diventa l’ennesima dimostrazione di talento che gli permette di spaziare da un immaginario all’altro, dimostrando ancora una volta la sua capacità nel muovere la macchina da presa e costruire le inquadrature. Le invenzioni visive hanno il merito di agire per sottrazione, risultando comunque affascinanti, soprattutto quando scopriamo le bizzarre sfaccettature della realtà in cui vivono i protagonisti.

Questo presente alternativo che scaturisce dagli anni Ottanta (grafiche e suoni compresi) denota il solito feticismo per quel decennio così inflazionato, e inizialmente può apparire gratuito; eppure, riesce a legittimarsi nel senso di alienazione che provoca in noi spettatori, rispecchiando la condizione stessa di Annie e Owen. Segregati dal resto del mondo e dalle loro famiglie, i nostri eroi incarnano due solitudini che aspettano solo di (ri)trovarsi, esprimendo quella tenera solidarietà fra reietti che ritorna spesso sul panorama cinetelevisivo contemporaneo. La costruzione di questo rapporto necessitava di un approccio più graduale (anche perché la brevità di alcuni episodi non lascia molto spazio all’approfondimento), ma l’esigenza di amicizia e di appoggio reciproco traspaiono con la giusta intensità, finale compreso, e l’empatia per entrambi non è difficile da raggiungere. In fondo, Annie e Owen sono le vittime predilette di un “sistema” che pretende di risolvere ogni problema con i farmaci, la psicoterapia e l’auto-aiuto: Maniac, visto in questa prospettiva, diventa una satira di quel pragmatismo americano che s’illude di trovare una soluzione pratica per tutto, senza mai risalire alla fonte del disagio, o preoccuparsi dell’individualità del “paziente”. Non è un caso che il Dr. Mantleray attinga ai suoi problemi personali per cercare di risolvere quelli altrui: è un circolo vizioso da cui non si può uscire, se non attraverso la rottura degli schemi.

L’incapacità di riconoscere questa realtà come propria è al centro della miniserie, che infatti si focalizza sulle coppie – Annie e Owen da un lato, Fujita e Mantleray dall’altro – per evidenziare la necessità di contatto umano in un ambiente ostile. Entrambi i legami si nutrono di compensazione reciproca, persino nelle prove attoriali: una camaleontica Emma Stone ci regala la sua performance migliore dai tempi di Easy Girl, bilanciando la pacatezza del bravo Jonah Hill, caratterizzata da emozioni trattenute e traumi interiorizzati; mentre la fermezza nipponica di Sonoya Mizuno fa da contraltare all’interpretazione febbricitante di Justin Theroux, sempre più versatile nel passaggio dal dramma alla commedia.

Ciò che ne risulta è una delle serie tv migliori dell’anno, soprattutto per la sua capacità di mediare fra le ambizioni e la compiutezza della narrazione, il rispetto per i personaggi e lo spessore della regia. Se ne parlerà molto, ed è giusto così.

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