Dopo il successo clamoroso di This Is Us in televisione Dan Fogelman arriva al cinema con Life Itself, dove trasporta aggiornandola, addirittura spingendola ancora più agli estremi, la sua idea di melodramma.
Perché se il suo lungometraggio ripropone molte delle idee che ci hanno fatto appassionare alla serie, al tempo stesso però prova anche a giocare con lo spettatore, ricordandogli che si tratta pur sempre di finzione, di un qualcosa che può essere manipolato da chi la crea, e che in questo caso è impersonato dal narratore. O meglio, dai vari narratori che nel corso della storia si alternano. Incroci temporali, deviazioni inaspettate nella storia, momenti drammatici e altri in cui è impossibile non commuoversi: Life Itself è tutto questo, e anche qualcosa in più: ci sono molti omaggi nel film, primo tra tutti quello al cantore americano per eccellenza della condizione umana e della sua fragilità, ovvero Bob Dylan. Ma è anche un tributo a New York a alla sua dolorosa bellezza, alla frammentazione umana di cui questa città si nutre, pur continuando a rappresentare una calamita emotiva ed immaginaria a cui sembra impossibile resistere. Fogelman unisce tutto questo a una serie di ritratti comuni, umani come le persone che puoi incontrare per strada sulla 8th Avenue, quelli che magari cantano leggermente troppo forte dentro uno Starbucks o che attraversano la strada senza troppo guardare i mezzi che sfrecciano agli incroci.
Il regista sa perfettamente come avvicinare queste anime alla nostra, come farci parteggiare per loro, soffrire il loro dolore. Anche perché, come già successo con This Is Us, si rivela assai lungimirante nello scegliere il suo cast di attori. Ed ecco che allora Oscar Isaac si rivela febbrile come non mai nella sua ricerca di redenzione dal dolore; che Mandy Patinkin riesce a farsi amare anche soltanto sorseggiando il suo whisky; che Antonio Banderas ritrova il suo fascino di un tempo coniugato con una profondità che prima non gli avevamo mai visto.
Life Itself è un melodramma esplicito, spudorato, e non poteva essere altrimenti. La sua originalità consiste nel prendersi però molto rischi a livello narrativo, nel proporre costantemente allo spettatore l’idea che la finzione è malleabile, fluida, addirittura diversa a seconda di chi la manipola. Nella seconda parte poi il film si concede addirittura un cambio quasi totale di ambientazione, un espediente che lo fa scivolare su binari forse meno originali ma di sicuro non meno efficaci per esplicitare la natura intrinseca del progetto stesso.
Alla fine Life Itself si ricompone in maniera organica, ardita, volutamente malinconica, regalandoci due ore di intensità emotiva impossibile da negare. Pur lavorando con gli stilemi del genere che ne hanno decretato la fortuna, Dan Fogelman con questo lungometraggio ha cercato di proporre delle variazioni sul (suo) tema tutto sommato anche rischiose, vincendo in pieno la scommessa. Se volete farvi un sano, liberatorio pianto dentro una sala buia, Life Itself è quello che vi serve…
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