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Iron Fist e il cuore errante di Shou-Lao: la recensione della stagione 2

Pubblicato il 17 settembre 2018 di Lorenzo Pedrazzi

Rinnovare Iron Fist per fare ammenda e ripartire da zero: Netflix e Marvel Television si prendono carico di rilanciare il meno amato fra i Difensori (la cui reputazione è migliorata grazie al cameo in Luke Cage), e raccontarne l’evoluzione in paladino della città, al posto dell’apparentemente deceduto Matt Murdock. Il risultato? La serie fa qualche passo avanti rispetto alla prima stagione, ma diventa anche l’emblema di tutto ciò che non funziona in questi show, amplificandone i limiti creativi.

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER

La trama è ovviamente costruita sulle basi degli episodi precedenti, compresa la miniserie The Defenders: dopo la sconfitta della Mano, il buon Danny Rand (Finn Jones) dedica tutte le sue forze a combattere il crimine “comune”, preoccupandosi soprattutto della tensione crescente fra le Triadi che governano Chinatown. Intanto, Colleen Jessica Henwick) ha chiuso il Chikara Dojo e l’ha trasformato in un confortevole appartamento che condivide con Danny, mentre lavora come volontaria al Bayard Community Center. Ward (Tom Pelphrey) frequenta gli incontri di un gruppo di recupero dalle dipendenze, e nel frattempo cerca di ricostruire il suo rapporto con Joy (Jessica Stroup). Quest’ultima, però, non ha alcuna intenzione di sotterrare l’ascia di guerra: al contrario, decide di uscire dalla Rand Enterprises per guadagnarsi la propria indipendenza, cospirando alle spalle di Danny insieme a Davos (Sacha Dhawan). L’obiettivo è quello di estirpare il cuore del drago Shou-Lao dal suo legittimo possessore, e trasferirlo in Davos, che lo considera un diritto di nascita. La loro strategia coinvolge una misteriosa ragazza chiamata Mary (Alice Eve), affetta da disturbo dissociativo dell’identità: in lei convivono almeno due personalità diverse, e se Mary è dolce e gentile, Walker – suo alter ego – è un’algida ex militare che presta i suoi servigi come detective, abilissima sia nel corpo a corpo sia nell’uso delle armi.

La scena iniziale è già di per sé una dichiarazione programmatica: il combattimento fra Danny e un gruppo di criminali non rinuncia allo spettacolo visivo, e sembra voler affermare immediatamente che non dovremo aspettare un’intera stagione per vedere l’Iron Fist in tutta la sua potenza. L’apporto di Clayton Barber (già al lavoro su Black Panther) nelle coreografie d’azione si fa sentire, e consolida l’impressione generale che Danny sia cresciuto. Reduce da una doppia esperienza formativa, sia avventurosa che sentimentale, Pugno d’Acciaio non è più il ragazzino insicuro dell’anno scorso, quello che doveva continuamente ribadire il suo titolo per cercare un po’ di rispetto («I am the immortal Iron Fist, protector of K’un-Lun, sworn enemy of The Hand»), ma è un uomo adulto che ha accettato le sue responsabilità, con maggiore self confidence e una gentilezza innata. Più di Jessica Jones e Luke Cage, la seconda stagione di Iron Fist affronta il problema della New York post-Defenders, privata di uno dei suoi maggiori paladini (Daredevil) e della sua organizzazione criminale più violenta (la Mano), quindi bisognosa di nuovi equilibri da cui ripartire.

Davos è ovviamente la scelta ideale come antagonista, soprattutto in una trama che parla di forze opposte e complementari, yin e yang: Steel Serpent (com’è noto nei fumetti Marvel) è infatti la nemesi giurata di Iron Fist, quasi un “doppio” malvagio del supereroe, e il nuovo showrunner Raven Metzner ne mette in scena le ambizioni parassitarie in modo più tortuoso rispetto ai fumetti. Gran parte della seconda stagione ruota attorno al contorto rituale che permette di trasferire il cuore di Shou-Lao da un possessore all’altro, e ciò che ne deriva è un’interpretazione letterale del titolo della serie: più che Danny Rand, il protagonista è proprio l’Iron Fist, ovvero quel potere che trasmigra da un corpo all’altro insieme al cuore del drago. Non a caso, nella seconda metà della stagione – ovvero, dal momento in cui Davos gli ruba il potere – Danny viene quasi messo in disparte a favore di Colleen, che alla fine ottiene l’Iron Fist su richiesta dello stesso Danny. L’idea in sé potrebbe anche funzionare, purtroppo però gli autori non riescono a costruire un giusto climax che porti alla resa dei conti finale, e anche le premesse di natura “psicologica” mancano di solide basi narrative. La dipendenza di Danny dall’Iron Fist viene solo accennata nei primi episodi, salvo poi rivelarsi fondamentale nelle scelte dell’eroe, ma senza un’adeguata preparazione di questa “svolta” in sede di racconto (e quindi con effetti un po’ forzati e gratuiti). Un senso di mancanza attraversa tutta la stagione, come se il potenziale andasse continuamente sprecato: il discorso vale anche per l’amore tra Danny e Colleen, un rapporto freddo, poco coinvolgente, incapace di trasmettere un vero senso di esigenza e poco incline a usare il linguaggio del corpo.

L’ossessione per il “realismo” e per la concretezza “terrena”, tipica di questi show, disinnesca l’eccezionalità delle storie originali e soffoca sul nascere qualunque afflato di meraviglia, in particolare nell’universo immaginifico di Iron Fist, che meriterebbe un trattamento ben più fantasioso. Così, anche l’introduzione di un supervillain come Steel Serpent risulta un po’ anodina: Sacha Dhawan non ha sufficiente presenza scenica per dare vita a un Serpente d’Acciaio credibile, e inoltre la sua caratterizzazione è troppo debole per supportarne le ragioni morali, nonostante il tentativo di arricchire il suo passato. Può sembrare una considerazione naïf, ma anche l’assenza di maschere e costumi (solo accennati nei flashback e in una scena del quinto episodio) contribuisce all’indebolimento dei personaggi, che smarriscono il loro spessore iconico e diventano anonimi, come i pugni che s’illuminano goffamente quando attivano il potere. In compenso, mentre il dualismo tra supereroe e supercriminale perde carisma, il ruolo liquido e ambiguo di Typhoid Mary è una delle cose migliori della serie, anche grazie all’interpretazione convincente di Alice Eve, in grado di sciogliersi nella dolcezza di Mary e di irrigidirsi nella durezza di Walker. Si tratta di un personaggio importante nella mitologia di Daredevil, quindi aspettiamoci di rivederla nell’eventuale terza stagione o in altre serie Marvel / Netflix, anche perché Mary non ci ha ancora mostrato il suo lato peggiore.

A ben vedere, il percorso di Danny ricalca curiosamente quello di Luke nella seconda stagione di Luke Cage, fino a un ultimo episodio che preferisce concentrarsi più sui dialoghi che sull’azione, allo scopo di chiudere – non senza fatica – tutte le linee narrative lasciate in sospeso. Il finale coagula in sé tutti i limiti principali dello show, a cui purtroppo non giova il taglio di tre puntate: il ritmo non è abbastanza sostenuto, e i rapporti tra i personaggi non sono così interessanti da poter reggere il peso del racconto. Peccato, perché le intenzioni erano buone, e sul piano spettacolare c’è stato sicuramente un passo avanti. Chissà che il nuovo status quo, accennato nell’epilogo, non possa condurre Iron Fist su sentieri più appassionanti.

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