Cinema

Corri o Muori

Pubblicato il 05 settembre 2018 di Filippo Magnifico

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La ruota gira. Può essere quella “della fortuna” o può semplicemente essere quella di un veicolo, resta il fatto che da lei dipende la nostra esistenza, la nostra sopravvivenza. Questo, ovviamente, se parliamo di horror, forse il genere che, più di ogni altro, ha puntato sempre sul movimento, percorrendo film dopo film moltissimi chilometri.

Dalle automobili in grado di muoversi autonomamente e di uccidere immaginate da Stephen King (Brivido) e John Carpenter (Christine, sempre tratto da un romanzo di Stephen King), fino alle fusioni splatter tra uomo e motocicletta viste in Nightmare 5: Il Mito, senza dimenticare le corse infinite che, al di là del Forrest Gump di turno, si sono sempre concluse nel peggiore dei modi (tipico dei film horror è fermarsi dopo una lunga corsa, convinti di essere in salvo, e morire – molto probabilmente pugnalati – una volta girato l’angolo).

Nel mondo della settima arte, del cinema horror in particolare, il “correre per la vita” può assumere diverse forme.
Si corre sempre per evitare un pericolo, per fuggire dal serial killer di turno che, incredibilmente, è sempre in grado di raggiungere il suo obiettivo camminando lentamente.
Si corre per salvare qualcuno che è in pericolo e in questo caso l’aiuto di due o quattro ruote può rivelarsi fondamentale per raggiungere nel minor tempo possibile la persona da salvare.
Correre può inoltre essere un’imposizione, una scelta obbligata se siamo parte di un gioco mortale.

E RIDE, il thriller su due ruote diretto da Jacopo Rondinelli e scritto, co-prodotto e supervisionato artisticamente da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (QUI trovate la nostra recensione), sembra unire perfettamente questi tre aspetti della “corsa cinematografica”, proponendoci un gioco in cui la velocità è la componente essenziale sia per sfuggire alla morte che per raggiungere l’obiettivo.
“Ride or Die” recita la frase di lancio di RIDE. Una semplice frase, che in realtà racchiude al suo interno quella che forse è la principale regola del cinema horror, racchiusa anche nel titolo del recente esordio alla regia di Jordan Peele: Scappa!
Esattamente quello che fa Robert Carlyle, solo per citare un esempio tra i moltissimi a disposizione, nell’incipit di 28 settimane dopo, il sequel di 28 giorni dopo diretto nel 2007 da Juan Carlos Fresnadillo.

In questo caso specifico corrono praticamente tutti, la persona minacciata ma anche la minaccia stessa, rappresentata da un’orda di “zombie” famelici. Corrono per raggiungere un obiettivo ben preciso, che a seconda del vincitore può rappresentare la vita o la morte.

Perché se c’è una cosa che il cinema di genere ci ha insegnato è che la staticità non paga. Ci sono le dovute eccezioni, è vero, ma rimanere fermi in attesa di un miracolo non è sempre la scelta migliore.
Certo, alcuni film fanno della staticità il loro punto di forza, come ad esempio Mine, diretto proprio dagli sceneggiatori di RIDE Fabio Guaglione e Fabio Resinaro ma è anche vero che in questo caso si tratta solo di una staticità apparente, perché intervengono la regia, la storia, il montaggio e ci pensano loro ad offrire una coinvolgente illusione di movimento.

Da questo punto di vista RIDE rappresenta l’atra faccia della medaglia, l’opposto che attrae Mine e completa una riflessione sul movimento e sulla sua assenza. E se nel primo film l’orrore c’è ma è più che altro psicologico, questa volta la minaccia è identificabile in un gioco al massacro che promette un livello altissimo e costante di tensione.
Perché, per giocare con una famosa frase, ogni giorno nell’universo dei film un protagonista buono si sveglia e sa che dovrà correre più del suo assassino.
Non importa che tu sia protagonista buono o assassino: l’importante è cominciare a correre.

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